Pino Loperfido | TrentinoMese - Appuntamenti, incontri e attualità trentina - magazine trentino

MAURIZIO FUGATTI “PRIMA ESPERIENZA, MA IDEE GIÀ CHIARE”

LO CHIAMAVANO L’UOMO DEI GAZEBO, MA ADESSO È PRESIDENTE DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO. SIAMO ANDATI A TROVARLO NELLA SUA CASA VICINO AVIO, DOVE CI HA ACCOLTO CON CORTESIA ASSIEME ALLA MOGLIE ELISA E AI DUE GEMELLI, SOFIA E MATTEO. LO ABBIAMO SOTTOPOSTO AD UN FUOCO DI FILA DI DOMANDE,
ALLE QUALI HA RISPOSTO VOLENTIERI, CON LA SUA CONSUETA FLEMMA. UN MAURIZIO FUGATTI PER CERTI ASPETTI INEDITO CHE NON MANCHERÀ DI SORPRENDERE I NOSTRI LETTORI. LEGHISTI E NON


Eccolo. È proprio lui. L’uomo nuovo della politica trentina. Oddio, nuovo si fa per dire, considerato che è stato per ben dodici anni segretario della Lega trentina e più volte parlamentare. Fatto sta che ce l’ho proprio di fronte e fa uno strano effetto vederlo così, in déshabillé, con una semplice tuta, ai piedi della sua casetta arroccata sui rilievi attorno ad Avio, battuti da un vento stranamente gelido (“Qui è sempre così”, ci confermerà poco dopo).
È un fan di gruppi italiani storici come Litfiba e Cccp e questo me lo rende notevolmente simpatico. Un po’ meno simpatico il fatto che tifi per la Juventus, ma vabbé, nessuno è perfetto.
Frivolezze, è vero, ma nell’intervista c’è spazio per tematiche molto serie e gravose come il lavoro e la crisi economica. Certo, l’atmosfera è gioviale. Maurizio Fugatti mi riceve in simbiosi con la sua famiglia: Elisa, l’elegante moglie, e i due gemellini Matteo e Sofia, armati di vassoi, libri, giocattoli vari e strumenti musicali con i quali movimentano (e musicano amabilmente) la mia intervista.
Fugatti è in tuta, è vero, ha un aspetto dimesso, ma non per nulla sciatto, anzi. Conserva un portamento notevole nonostante la tenuta casalinga.
In attesa di cominciare, mi arrovello sull’appellativo con cui chiamarlo, Presidente o Governatore? Mi butto sul secondo, dopotutto ho ben il cinquanta per cento di possibilità di incontrare il suo consenso.
Buongiorno Governatore, abita proprio sul… Che c’è? Ho detto qualcosa che non va?
Mi piace di più quando mi chiamano Presidente.
Urgh... Va bene. Buongiorno Presidente, stavo dicendo che abita proprio al confine...
Pensi che la casa di mia nonna era la prima che si incontrava in territorio trentino salendo dal Veneto.
Che ricordo ha della sua infanzia?
Ho fatto le scuole elementari a Borghetto, che un tempo faceva comune.
Cosa voleva dire per lei abitare in una terra di confine?
Lo sa che una volta c’era anche il porto? Mi ricordo la festa d’Estate, con la barca che veniva calata nell’Adige… Pensi che il paese di Mama d’Avio è tagliato addirittura in due dal confine…
Abbiamo appena letto sui giornali della nomina di Vittorio Sgarbi…
Stamattina ho preso i giornali e…
...ha appreso anche lei la cosa dai giornali?
No, certo che no… Dicevo che dai giornali mi pare che ci sia un certo interesse. Lo Sgarbi lo conosco da tempo. Avevamo preso un accordo in autunno. Occorreva aspettare i tempo tecnici per la nomina. Ed ora eccolo qua.
Cosa può rappresentare per il Mart?
Credo un’ottima occasione, sia dal punto di vista della risonanza mediatica sia dal punto di vista delle opere: lui potrà portare collezioni di un certo peso. Certo, lui ha un carattere importante…
A volte il personaggio non è così gestibile…
È vero. Tuttavia credo che la scommessa vada comunque giocata.
Lui cosa dice?
È molto contento. Ci teneva.

Cambiamo argomento. Noi di TrentinoMese abbiamo inseguito per cinque anni il suo predecessore, tentando di convincerlo a rilasciare un’intervista “casalinga” come questa. Non ci siamo riusciti. Lei ci ha detto di sì al primo tentativo.

Non dico che il mio predecessore abbia sbagliato, ma solo che personalmente ho un’impostazione di questo tipo. Lo abbiamo dimostrato anche come gruppo di governo nel rapporto con i cittadini.
In che modo?
Ad esempio con l’apertura del martedì mattina alle istanze della gente. Sono approcci diversi.
Giudicheranno i lettori…
Un giornalista viene a casa e mi intervista. Che problema c’è?

Appunto. Senza contare il ritorno d’immagine che ne deriva. Due sono le cose: o Maurizio Fugatti ha progettato a tavolino la situazione famigliare, inscenando quest’atmosfera da Mulino Bianco che sa di innocenza e di disponibilità o è veramente tutto vero e in tal caso è il politico meno trombone che si trovi sulla piazza. Mentre Matteo e Sofia rumoreggiano allegri in salotto, propendiamo decisamente per la seconda ipotesi.
No, la nostra rivista non si occupa di politica. Però i politici ci piace sorprenderli con certe domandine sfiziose, come quella che segue.


Senta Fugatti, il 3 novembre 1918 l’esercito italiano entrava a Trento. Esattamente cento anni dopo, il 3 novembre 2018, un leghista fa ingresso nella stanza dei bottoni di Piazza Dante. Un’invasione o una liberazione?
Né una né l’altra. È stata una scelta dei cittadini (…intanto, Sofia chiede alla mamma se Piazza Dante è sul Monopoli. “È dove lavora il papà”, risponde la signora Elisa). Certo ammetto che si è trattato di una scelta forte perché il Trentino non ha mai avuto, dal dopoguerra in poi, governi che non fossero democristiani o autonomisti.
Qual è stata la prima cosa che ha pensato una volta eletto?
Ho avvertito un forte senso di responsabilità e tanta emozione. Con la consapevolezza di dover restare con i piedi per terra.
Noi non abbiamo mai detto di voler fare rivoluzioni, bensì riforme. Al di là di qualche accenno su temi a noi cari, che può sembrare rivoluzionario – vedi l’immigrazione o la sicurezza – sul resto abbiamo dimostrato di essere in primis riformatori.
Lei spesso viene definito – con una brutta espressione, a mio avviso – “l’uomo dei gazebo”. Ora deve prendere decisioni come si conviene alla buona politica. Come si sta col timone del comando in mano?
Al di là delle scelte politiche che possono piacere o meno, come è legittimo, la parte organizzativa presenta delle complessità. Il Trentino è un piccolo Stato. Il contatto tra il Presidente e i cittadini è molto limitato. Con te vuol parlare il pensionato come il rettore. Riuscire a organizzare i tempi per non deludere tutte queste persone con attese troppo lunghe: ecco, questa è l’oggettiva difficoltà.
Per lo meno lei ci sta provando… C’è chi non ci ha nemmeno provato.
Questo non lo so.
“Prima i trentini” è stato uno dei cavalli di battaglia della Lega nelle ultime elezioni provinciali. Il filosofo Noam Chomsky sostiene che “il sovranismo è la cura sbagliata ad un problema reale”: lei cosa ne pensa?
A me piace parlare più di “autonomismo”. Attenzione perché sovranismo non vuol dire nazionalismo. Si cerca di fare prima gli interessi della gente vicina e queste sono le finalità dell’autonomia. Come diceva Enrico Puner: noi siamo di nazionalità trentina.
Quindi secondo lei sovranismo e autonomia sono conciliabili?
Sì, se non ci riferiamo a quel sovranismo di tipo nazionalistico.
Nel 2011 abbiamo intervistato uno dei suoi predecessori, Lorenzo Dellai. Il quale dichiarò che non abbiamo nessuna possibilità di perdere la nostra autonomia.
Sono d’accordo con lui.
È così inalienabile la nostra autonomia? Lo può confermare otto anni dopo? Non c’è il rischio che l’autonomia differenziata per Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna – tanto osteggiata dai 5 stelle – si riveli una sorta di declassamento per quella trentina?
Credo che dia la possibilità di avere maggiori forme di autogoverno per quelle regioni che l’hanno chiesta. Questo alla fine concorrere a diminuire il senso di ostilità in parlamento verso le altre autonomie, come la nostra.
Ma se un giorno raggiungessero il nostro livello…
Io penso che non possano farlo. Si possono alzare di livello ma senza mai raggiungere la nostra che ha un ancoraggio internazionale ed è statutaria. Alla fine la loro autonomia ha l’effetto – apparentemente paradossale – di tutelare di più la nostra.
Mi faccia capire, – uso un gergo ciclistico – è come se noi avessimo un vantaggio di un minuto sul gruppo e riuscissimo a conservare quel vantaggio per tutto il corso della gara. Gli altri allora cosa ci guadagnano?
C’è un senso di libertà per gli altri, e noi come autonomisti non possiamo che rallegrarci di questo risultato. La nostra autonomia sarà sempre più ricercata delle altre.
A proposito, visto che non ci sente nessuno, è vero che il premier Conte è un burattino, come ha deto Guy Verhofstadt all’Europarlamento?
No, io sono stato sottosegretario, ho avuto modo di conoscerlo e mi pare una persona seria. È chiaro che lui fa il premier in un Governo di contratto. E, si badi, non c’era alternativa a questo Governo. Occorreva una mediazione e lui mi pare stia interpretando bene questo ruolo.
C’è un dibattito sulla competenza. Anche in politica, l’improvvisazione dà l’impressione di essere diventata una nota di merito. Sui social poi siamo tutti esperti. Cade un ponte e siamo tutti ingegneri. Bombardano la Siria e ci ritroviamo improvvisamente circondati da esperti di politica internazionale. Qual è l’idea di competenza di Maurizio Fugatti?
Penso a delle basi date dalla conoscenza, che derivano dal lavoro o dagli studi che hai fatto. Dopo di che, in politica non è detto che chi è inesperto sia per forza incapace.
Sta pensando alla sua Giunta?
La nostra Giunta provinciale è la più inesperta della storia dell’Autonomia trentina…
Lei escluso?
No, mettiamoci dentro anche il sottoscritto. Siamo inesperti però non andiamo in giro ad insegnare nulla a nessuno. Prestiamo ascolto. Siamo qui per imparare. Parlo anche per i miei assessori che – mi viene segnalato – si muovono così.
Un po’ di preparazione, una certa dose di modestia (perché se sei inesperto devi compensare il deficit con una certa dose di modestia per poter predisporti all’apprendimento).
Se al contrario pensi di essere un fenomeno… prima o poi batti la testa. Ci sono casi di questo tipo anche a livello nazionale…

“Maurizio, noi ci andiamo a preparare…”. La signora Elisa ci interrompe un momento. Va a preparare i bambini perché li attende una piccola gita sugli sci. Il Presidente è a casa, stranamente libero da impegni per qualche ora, e l’occasione è ghiotta. Oltre lo sci, scopriamo che ama molto andare a correre: il phisique du role certo non gli manca, specialmente questo sabato mattina di metà febbraio, in cui indossa con molta naturalezza una comoda tuta da ginnastica.
Senza l’allegro ciangottare di Sofia e Matteo, il soggiorno pare ora essere piombato improvvisamente in un silenzio monastico. Le nostre voci rimbombano sulle pareti.

Una battuta sulle eccellenze: il Trentino ne dispone in moltissimi campi. In quale si può fare decisamente di più?
In alcuni settori certamente. Penso al tema del lavoro e alle contraddizioni del mercato del lavoro stesso. Settori in cerca di personale da una parte e ragazzi in cerca di occupazione dall’altra. Manca questo incontro tra domanda e offerta e non si riesce a capirne appieno il perché.
Come va con la disoccupazione giovanile in Trentino?
I dati statistici ci dicono che è oggettivamente un problema.
Cos’altro ha margini di miglioramento qui da noi?
Senz’altro la semplificazione. Forse è il tema più difficile.
E il turismo?
Dobbiamo lavorare di più per un turismo di qualità. E poi lavorare di più sulla promozione dei nostri prodotti agricoli.
Ci può fare un esempio?
Oggi il Trentino non ha un suo yogurt.
Ah, no?!
Per comprare uno yogurt trentino oggi io devo andare negli spacci dei caseifici. Perché accade questo? Io non lo so. Se vai nei negozi trovi quattro prodotti dell’Alto Adige e nemmeno uno trentino.
E i vini?
Al netto di Ferrari e di un po’ di Trentodoc (e del San Leonardo che si produce qui accanto), quando esci dalla regione ti accorgi che tutta questa eccellenza forse non c’è.
Gioca molto in questo settore quel fastidioso complesso d’inferiorità che affligge il Trentino nei confronti dei cugini sudtirolesi…
In questi ultimi anni Bolzano ha imposto delle scelte strategiche importanti al Trentino, tramite il Governo dell’SVP.
Si può dire che adesso la Lega diventa un po’ arbitro regionale?
Certo, anche se non è facile. C’è un contesto regionale, l’SVP è abituata a ragionare con le sue logiche. È un percorso di scelte quotidiane che vanno concordate. Non dimentichiamo che la nostra Autonomia e la loro dipendono dalla bontà dei rapporti che intercorrono tra le due provincie.
Parliamo di cooperazione: per qualcuno il cooperatore è un imprenditore di Serie B. Un imprenditore che cammina sul filo ma sa di non rischiare nulla perché sotto ha la rete dell’assistenzialismo. Non crede che si sia ecceduto in questi ultimi anni creando una cultura che non contempla il rischio per l’imprenditorialità?
Fermo restando che il rischio in un ambiente cooperativo è condiviso tra i soci, è chiaro che al privato concorrente potrebbe anche dar fastidio tutta questa “solidarietà”. In ogni caso, alla fine la cooperazione è stata importante anche per la tenuta sociale del Trentino, per l’unità culturale dei diversi territori della provincia e delle loro peculiarità che sono a volte molto diverse tra loro.
E cioè?
Le problematiche di Canal San Bovo e quelle di Predazzo o di Storo hanno ben poco in comune. La cooperazione in questo contesto ha fatto benissimo da collante, permettendo uno sviluppo il più possibile omogeneo tra centro e periferia.
(Fa una piccola pausa, poi riprende.) La cooperazione ha fatto anche degli errori, per carità, ma in primis va evidenziato il valore sociale, economico e di tenuta che ha regalato al Trentino.
Veniamo a un altro tema. In ogni campagna elettorale sentiamo promettere uno snellimento della burocrazia. In realtà, ogni anno che passa, quel che dovrebbe essere gestito dalla società civile viene fagocitato sempre più dall’ente pubblico.
Come ho già detto prima, questo è il tema più difficile e inestricabile. È una cosa che chiedono tutte le categorie. Come Giunta abbiamo creato un’unità operativa che si chiama “semplificazione e digitalizzazione” a cui ogni categoria ha assegnato un proprio referente che, di volta in volta, sottopone le problematiche più scottanti legate appunto alla burocrazia.
C’è anche un rappresentante del volontariato?
Volontariato?
Sì, insomma, qualcuno che porti le istanze delle associazioni… (Fugatti prende nota) dacché sono assediate dalla burocrazia, dai controlli asfissianti, una sorta di cappa poliziesca che rende sempre più complicato organizzare cose, dalla festa campestre alla manifestazione culturale. Sempre più bandi vanno deserti o quasi, creando chiusure quando non situazioni imbarazzanti (un esempio su tutti, il Natale a Rovereto). Non crede che la politica stia abbandonando le associazioni al loro destino?
Non lo so. Sono Presidente da tre mesi e quello che lei mi dice mi preoccupa. Sicuramente sarà uno dei temi che bisognerà affrontare nei prossimi ordini del giorno.
In Italia già da diversi mesi impera un certo dibattito sul ruolo delle élite. Spesso lei ha parlato di dissociazione tra le èlite stesse e il popolo che vive sulla sua pelle proprio questo scollamento. Lei è allo stesso tempo Presidente (èlite) e consulente dei disagi del popolo. Come fa a conciliare i due ruoli?
Ho coscienza del fatto che se si parla troppo con i vertici si perde per strada il termometro del popolo. Si dimentica. Per questo il martedì mattina, alle 7, apro le porte del mio ufficio e torno con i piedi per terra: lascio da parte i massimi sistemi e affronto i problemi molto più concreti della gente comune. La madre con il figlio disabile, l’artigiano con la cartella esattoriale e sa cosa succede?
Cosa?
Che ti ricordi da dove sei venuto. E cioè dal popolo.
Aiuta anche lei questo rapporto diretto con i cittadini?
Certo, mi aiuta nel senso che mi impedisce quell’alienazione che è tipica del potere a certi livelli. Spesso mi accusano di non essere preoccupato per le problematiche delle élite: sindacati, banche, ecc.
I problemi delle élite e quelli del popolo sono a due livelli diversi. Mi preoccupano di più i secondi.
Delle volte però il popolo commette un errore di valutazione. Anche molti trentini pensano di star facendo politica, in realtà sono solo militanti in un partito (pensiamo allo spirito dei social). È grosso modo la differenza che c’è tra l’atleta e il tifoso. Un disimpegno mascherato da impegno. Non pensa che sia necessaria una nuova educazione alla cultura politica?
Ho fatto il segretario della Lega per dodici anni e so cos’è la polvere. Ho fatto il segretario con il partito al 4%, non dimentichiamolo. Questa mia esperienza la ritengo un punto di forza.
Ritengo che la Lega riesce molto bene a unificare l’essere militante e poi il fare politica. Basta guardare ai tredici consiglieri dell’attuale Consiglio: è tutta gente che ha fatto la militanza. Un’attività indispensabile se vuoi legarti a dei valori. Con i limiti – lo ribadisco – di chi non ha l’esperienza e non ha mai governato e ha fatto solo gazebo. Ma impareranno… È già successo in Veneto e in Lombardia. Ora tocca a noi.
Lei è un tipo pacato, tranquillo. Ho letto una frase di Paolo Gentiloni: “Se riescono a farvi urlare, hanno vinto loro”. Lei che rapporto ha con le critiche?
È difficile che mi inalberi, questo lo sanno tutti. Non vuol dire però che non me la prendo. Ma solo che non lo faccio trasparire.
In passato alcuni politici suoi predecessori hanno sfruttato veri e propri modelli di consenso, fabbriche e magazzini di voti: il cosiddetto collateralismo. Lei ce l’ha un modello di consenso?
Se devo cercare una forma di consenso, ribadisco quanto detto prima nel contatto quasi ossessivo con il popolo. Le faccio un esempio: domani vado al carnevale di Borghetto.

Perché dice che la città di Trento è così importante per il governo provinciale?
Perché è il bacino economico, culturale dell’intera provincia. L’altro giorno ho proposto al Sindaco Andreatta di mettere da parte i colori politici e di incontrarci. Sono convinto che, per la ripartenza del Trentino, non possiamo fossilizzarci sulle appartenenze politiche del tipo “Andreatta è del PD e io sono della Lega pertanto non facciamo niente”.
E quindi fare cosa?
Trovare dei canali comuni: come ad esempio il tema della funivia per il Bondone. Ogni gradino che la città di Trento riesce a salire significa un gradino in più per tutto il territorio. Io in questa sinergia ci credo, a prescindere da chi governa.
A proposito di funivia, cosa ne pensa nello specifico del progetto di collegare la città alla sua montagna?
Mi colpisce che non vi siano delle prese di posizioni nette. Solo un sacco di “forse”, “sì ma” e “no però”. Noi come Provincia ci siamo, ma abbiamo bisogno di convinzione da parte dell’Amministrazione Comunale. Una città d’arte collegata direttamente con le piste da sci costituirebbe un unicum davvero attrattivo.
Dicono che costi troppo…
Certo che costa. Per questo va fatta in simbiosi con il mondo privato che ci deve credere almeno quanto ci crede il pubblico.
L’imprenditore Gino Lunelli, ex presidente delle Cantine Ferrari, recentemente ha dichiarato che si tratta di un servizio pubblico e come tale deve essere totalmente a carico dell’ente pubblico
Per me il servizio pubblico è lo scuolabus. Anche la funivia del Bondone lo è, ma serve ad uno sviluppo generale che ha ricadute su tutti i settori.
Turismo di massa o turismo d’èlite?
Tutti e due sono importanti. Forse dobbiamo crescere un po’ di più sul secondo.
Ambiente e antropizzazione: il turismo trentino vanta numeri da record. Adesso abbiamo il Giro d’Italia, Festival dello Sport ecc. tuttavia il Trentino non è il Wyoming, tralasciando montagne, parchi, boschi e laghi, quel che resta, circa il 3% abitabile è quasi completamente sfruttato. Il turista alimenta l’economia ma anche l’inquinamento… Non crede che bisognerebbe cominciare a ragionare su possibili limiti a tutto ciò?
Secondo me dobbiamo migliorare la destagionalizzazione, scaglionare i turisti in maniera più uniforme tra periodi sovraffollati e periodi che lo sono meno. Ma non credo che dobbiamo porci dei limiti assoluti sui flussi.
Orsi e lupi. Luis Durnwalder, nel 2017, ci ha detto che “il Trentino dovrebbe trovare il coraggio di fare marcia indietro, perché cento anni fa non avevamo 13 milioni di turisti.”
Il Trentino “deve” fare marcia indietro.
Perché?
Li vede quei due bambini lì?
Chi, i suoi figli?
L’altro giorno, qui sopra San Leonardo, un lupo ha sbranato un capriolo. Pensi a quante famiglie con bambini abitano in campagna o in estrema periferia. Gli animalisti di città fanno le loro dimostrazioni in città, appunto. In montagna ci dobbiamo vivere noi. Si rende conto che a Canazei i lupi girano per le strade? Si è davvero dormito in questi ultimi anni su questo tema. Ora, ovviamente, non possiamo cambiare tutto in tre mesi…

Bossi come sta? (Il giorno prima è stato ricoverato in rianimazione…)
Dicono meglio.
Il 10 gennaio scorso è mancato Enzo Erminio Boso: cosa ha rappresentato per lei la sua scomparsa?
Per me è stata una perdita importantissima… Umana prima che politica.

Qui la voce di Maurizio Fugatti si spegne. Come se qualcuno stesse girando una manopola. Gli occhi gli si sono improvvisamente inumiditi. Seguono alcuni attimi di silenzio.
Il Presidente si riprende dalla commozione chiamando in causa i suoi figli. “Cos’è che diceva Boso, Matteo, quando chiamava papà?” “Elà” risponde il piccolo, riportando un po’ di serenità sul volto del suo giovane padre.

La Lega è cambiata, ma lo spirito delle origini rimane.
Tutto si evolve.
Si tratta solo di interpretare il cambiamento. Credo sia uno dei compiti miei e dei miei compagni di partito.
Un indovino mi ha detto che la Lega stravincerà le europee e questo ci porterà a nuove elezioni politiche in autunno…
Certe scelte, in tema infrastrutturale di questo Governo, i territori le stanno vivendo male. C’è l’auspicio che la Lega faccia un grande risultato alle Europee. Dopodiché bisognerà ragionare con gli alleati di governo proprio sull’impostazione data a certe tematiche ambientali e afferenti alle grandi opere.
C’è qualcosa su cui si è dovuto ricredere in questi primi cento giorni?
È troppo presto. Sicuramente ci sarà qualcosa di cui mi dovrò pentire, ma accadrà più avanti.

Chiudiamo con qualche domanda personale. Perché non sorride mai?
(Lui gira la domanda alla moglie) Perché non sorrido mai, Elisa? Me lo chiedono tutti… (Elisa racconta che nel giorno del loro matrimonio gli amici lo rimproveravano: “e meno male che questo dovrebbe essere il giorno più felice della tua vita…” Lui è euforico solo quando guarda vincere la Juventus.)
Non riesco a sorridere.
Nemmeno dopo aver appreso il risultato elettorale di ottobre…
Lì era solo per una forma di responsabilità (ride). Ecco, adesso sto ridendo, però.
Salvini dice che stare sui social è un dovere perché i cittadini gli pagano lo stipendio e vanno informati su tutto. Anche sui suoi famosi ravioli al burro. Il suo rapporto con i social network com’è?
Medio. Ci lavoro, però non scado mai sul personale, salvo rare eccezioni, ad esempio quando è morto Boso. Anche perché per stare sui social devi essere un “uomo da social”, e Salvini lo è.
Si reputa un uomo felice?
(Guarda la sua famiglia) Beh, direi di sì. Senza presunzione.
Posso chiederle qual è il suo rapporto con Dio o con il trascendente?
Sono cattolico, sono credente. E un peccatore, sicuramente. La domenica quando posso seguo la Messa. Secondo qualcuno, in alcune scelte politiche non seguo quanto dice il Papa, ma…
Dove immagina di essere fra 20 anni?
Qui. A questo tavolo. Un giorno tornerò alla campagna, all’azienda agricola di mio papà, ai suoi tacchini.
È vero che suo papà votava sempre DC alle nazionali e PPTT alle provinciali?
Lo ha fatto fino a quando è arrivata la Lega.
Suo zio, Pietro Benvenuti, era segretario della sezione PPTT di Avio…
Abitava in quella casa di cui le parlavo, la prima che si incontra dopo il confine. È una zona questa dove lo spirito autonomista ha sempre avuto la sua culla. Nel 1991 mio zio morì. Andavo a trovare spesso mia nonna, che mi raccontava di un certo politico che l’andava a trovare tutte le settimane. Era Franco Tretter. Il suo è un gesto che mi ha insegnato tanto. Ancora oggi, Tretter è uno dei miei più fidi consiglieri.

La domanda sulla sua idea di famiglia la salto, perché basta guardarvi. Passiamo allora alla piccola interrogazione finale. Quanto costa un litro di latte?
Dunque... Un euro e 30, un euro e quaranta. Quello buono, però.
Cosè il “bailout”?
L’acquisto di un’azienda da parte dello Stato.
Più o meno è così... Come è messo invece in geografia? Saprebbe elencarmi i confini della Siria?
Eh, mamma mia… vediamo: Libano…
Vabbè, accontentiamoci.
In chiusura le chiediamo di aiutarci, perché alcuni esponenti del Governo in questi mesi ci stanno confondendo un po’ le idee… Per l’esattezza Pinochet in quale Stato fece il colpo di Stato?
In Cile. C’era anche quella canzone dei Litfiba… “Santiago”.
Sì, quella si riferiva alla visita di Papa Wojtyla del 1987, ma gliela passiamo. Da quanti anni esiste la democrazia francese?
Beh, dalla rivoluzione. Uno sette otto nove, 1789.
Insomma, questo benedetto tunnel del Brennero c’è o non c’è?!
Lo stiamo facendo.
Qual è la domanda che ha sempre voluto le facessero e non le fa mai nessuno (nemmeno noi)?
Non saprei.
Bene, si vede che gliele abbiamo fatte proprio tutte.

Salutiamo e ringraziamo per la squisita ospitalità. Fugatti è un po’ preoccupato per le ultime risposte date. Ci chiede se ha risposto bene. Lo rassicuriamo su tutto.
Solo sull’esistenza del tunnel del Brennero nutriamo ancora qualche dubbio anche noi. Andremo a controllare e vi faremo sapere. Promesso.
ν

I RAGAZZI DI VIA RASELLA

IL 23 MARZO 1944 ESPLODE LA BOMBA CHE, UCCIDENDO 33 MILITARI ALTOATESINI, CONDURRÀ ALLA TRAGICA RAPPRESAGLIA DELLE FOSSE ARDEATINE E AD UNA GENERALE RECRUDESCENZA DELLA REPRESSIONE NAZISTA. UN CASO ANCORA APERTO, 75 ANNI DOPO. NON SOLO PERCHÉ QUEI CONTADINI E ARTIGIANI DELLE VALLATE SUDTIROLESI, ARRUOLATI A FORZA, CONTINUANO ERRONEAMENTE AD ESSERE DEFINITI “TEDESCHI” E MEMBRI DELLE SS. MA PERCHÉ RITENUTI RESPONSABILI DELL’ECCIDIO IN CUI PERIRANNO 335 PERSONE. UNA DAMNATIO MEMORIAE CHE PARE CONDANNARLI PER SEMPRE AL SILENZIO E, ALCUNI DI LORO, ANCHE AD UNA SEPOLTURA INDEGNA. UNA FERITA APERTA NELLA MEMORIA STORICA DELLA NAZIONE, MA QUEI 33 RAGAZZI, A QUESTO PUNTO, AVREBBERO DIRITTO ALMENO AD UN PO’ DI VERITÀ E DI PACE

Mi aggiro nella pancia del Santuario di Pietralba, a due passi da Bolzano. Siamo quasi sul confine tra Alto Adige e Trentino. La stanza degli ex voto ha le pareti tappezzate di quadri e quadretti: santi, madonne, ma anche scene di incidenti, cadute, immagini di ammalati con le braccia fasciate o infilati in un letto, ritagli di cronaca nera e altro ancora. E poi stampelle, occhiali, caschi da motociclista. Un vero e proprio Sancta Sanctorum delle sfighe. Ad un certo punto, non so perché, vengo attirato da un quadretto contornato di nero che riporta un piccolo elenco di nomi e date di nascita. Sembra sottrarsi in qualche maniera alla logica degli altri ex voto. Voglio dire, solitamente si ringrazia il Cielo per una grazia ricevuta, per lo scampato pericolo. Questo quadretto, invece, riporta uno strano elenco di trentadue persone scomparse. Decedute a Roma, in via Rasella, il 23 marzo del 1944.
Via Rasella, ma certo, – adesso ricordo! – quella bomba che scatenò poi la rappresaglia orribile delle fosse Ardeatine. Ne ho sentito parlare. Di questa vicenda, in quel momento, so solo che i partigiani uccisero alcune SS tedesche, ma allora, perché qui, a Pietralba, questo quadretto? Per scoprirlo mi metto al lavoro, leggendo e interpellando chi ne sa più di me. Illuminante ed imprescindibile, in questo senso, il libro di Lorenzo Baratter, “Dall’Alpenvorland a via Rasella” (Publilux, 2003).
Vado perfino a Roma, in quella strada fatale, e a bocca aperta davanti ai muri ancora sbrecciati dopo tanti anni, respiro un’atmosfera pesante, piena di fantasmi e della flebile eco di urla disumane. Scrivo all’allora Governatore Luis Durnwalder, chiedendo di fare qualcosa per intaccare questa damnatio memoriae che sta condannando quei ragazzi altoatesini alla dimenticanza eterna. Non ricevo nessuna risposta.
Tuttavia non demordo e proseguo con le ricerche. Quel che segue è il mio modesto tentativo di ricostruire i fatti.
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Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Italia “scarica” a sorpresa la Germania. Ma per i tedeschi quello dell’armistizio è solo il segreto di Pulcinella, anzi “Das pfeifen die Spatzen schon vom Dach”, come dicono loro. Così solo due giorni dopo viene costituita l’Alpenvorland, il Trentino e l’Alto Adige vengono in tutto e per tutto assoggettati al potere nazista. Tra le altre cose, si presenta la necessità di costituire dei corpi di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico. Vengono all’uopo formati il Corpo di Sicurezza Trentino, il suo corrispondente altoatesino, il S.o.d., e i Polizeiregiment Italiani – almeno sulla carta – che combattono per i tedeschi.
Alcuni si arruolano perché convinti di evitare così di essere mandati al Fronte, altri perché sinceri sostenitori del nazismo, altri solamente perché costretti a prendere atto della propria volontarietà. Tanto è vero che la cartolina di richiamo si rivolge “An den Kriegsdienstplichtigen”: qualcosa come “All’obbligato al servizio di guerra”. Nel 1979, il quotidiano “Alto Adige” pubblica un inserto intitolato “Quelli di via Rasella”, che rompe un muro di silenzio lungo 35 anni. Josef Prader, reduce del III Battaglione del “Bozen”, racconta a Umberto Gandini: «Ci fecero firmare cartellini sui quali era scritto che eravamo volontari. Io dissi che, se volevano, potevano anche arruolarmi, ma non come volontario. Mi risposero che mi avrebbero definito come pareva a loro, e che se facevo tante storie, sarei finito in Russia. Ecco come eravamo volontari...».
Come racconta Lorenzo Baratter ne “Le Dolomiti del Terzo Reich” (Mursia, 2005), tanti militari hanno già prestato servizio molto tempo prima nell’esercito italiano. Emblematico il caso di Peter Putzer, di Varna. È stato artigliere da montagna sul Tonale, vent’anni prima. Durante l’addestramento a Gries muore sua figlia. Il comando gli nega la licenza per partecipare al funerale. Ma per alcuni le circostanze sono ancora più tremende. Lois Rauter è un contadino della Val Pusteria. Lui e sua moglie hanno due figli, Valentin e Heinrich, che sono minorati psichici. Come altre migliaia di sudtirolesi, viene chiamato a decidere se rimanere cittadino italiano oppure optare per la Germania. Viene convinto alla seconda scelta. Quello che non sa è che i suoi due poveri ragazzi verranno così avviati alla famigerata Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva in Germania la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali. Vite che, secondo loro, erano indegne di essere vissute. Lois Rauter riceverà la notizia della morte dei due figli, poco prima di essere arruolato. In via Rasella perderà un braccio.
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L’undicesima compagnia del Polizeiregiment Bozen è formata da 156 uomini. Quasi tutti contadini, artigiani, pastori o mugnai delle valli dell’Alto Adige; hanno tra i 30 e i 40 anni e sono comandati dal sottotenente Walter Wolgasth, un prussiano tutto d’un pezzo, una vera carogna secondo i suoi soldati che gli affibbiano il nomignolo di “Vollgas”, Tuttogas, perché si diverte a farli schiattare di fatica. Il battaglione, invece, lo dirige un boemo, Johann “Hans” Dobek (conosciuto anche come Hellmuth Dobbrick). I posti di comando sono naturalmente preclusi agli altoatesini: per loro non rimane che il grado di Unterwachtmeister, il più basso della gerarchia della polizia d’ordine dopo quello di allievo.
Dobek e Tuttogas non hanno una grande opinione dei loro soldati; l’appellativo più gentile che riservano alla truppa è “Holzkoepfe”, teste di legno. Probabilmente non hanno digerito di essere stati assegnati a quel battaglione, a quelle schiene curve abituate a salire su per i sentieri della Val Venosta e dei passi dolomitici, a quella gente di montagna per natura così pacifica e poco incline alla marzialità militaresca. Anche per questo l’addestramento è particolarmente duro. Bolzano e poi Colle Isarco. E da sopportare non ci sono solo la disciplina e la fatica fisica, ma pure l’umiliazione psicologica messa in atto dai comandi. Il razzismo, insomma. “Traditori”, “maiali”, “bastardi” a ogni piè sospinto. A quelle reclute non viene perdonato il fatto di essere così poco tedesche, di non sapere addirittura, come nel caso dei ladini, parlare il tedesco.
Loro, le reclute, malsopportano. In fondo, a quanto ne possono sapere, tutto quello assomiglia tanto a un secondo servizio militare, fatto con una divisa diversa, per una nazione diversa, con tanto di giuramento che viene pronunciato il 28 gennaio. Pochi giorni dopo il Battaglione è trasferito a Roma, con mansioni di sorveglianza.
Per chi sperava di rimanere in Alto Adige non è certo una bella notizia. Anche perché Roma, in quei giorni, almeno in teoria, dovrebbe essere una “Città Aperta”, cioé immune ad ogni tipo di combattimento, ma di fatto è il teatro di un braccio di ferro tra i nazisti e le bande partigiane. La dichiarazione del 14 agosto 1943, infatti, non verrà di fatto mai riconosciuta dagli Alleati.
Di tanto in tanto, sui muri della città, compaiono alcuni manifesti tedeschi. Vi si può leggere una frase terribile, ma molto, molto chiara, che non può lasciare spazio agli equivoci: ogni aggressione contro i militari tedeschi da parte di civili sarà punita con dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca. Non è una novità. Già tre volte – il 31 gennaio, il 2 febbraio e il 7 marzo, a Forte Bravetta – in seguito all’uccisione di soldati tedeschi sono stati giustiziati coplessivamente 31 italiani. Un memento che, come vedremo, non sortirà l’effetto voluto.
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Il futuro deputato comunista Giorgio Amendola è a capo dei Gruppi di Azione Patriottica nella capitale, i GAP, e li ha già incrociati questi militari un po’ curvi, così poco tedeschi, che cantano come deficienti per le strade di Roma. Sì, li ha visti anche in Piazza di Spagna, recandosi al nascondiglio di Alcide De Gasperi, nel palazzo della Propaganda Fidae. Amendola ordina ai GAP di studiare un piano per attaccare quella Compagnia: un bersaglio troppo facile per potervi rinunciare. Sono una dozzina i gappisti coinvolti, tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi.
La logorante guerra di posizione tra le truppe Alleate, sbarcate ad Anzio due mesi prima, e le forze tedesche al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring è al suo culmine. Nessuno avanza verso nessun oltre. E Roma è come un gioiello conteso che abbaglia con crudele bellezza questi soldati dell’undicesima compagnia: valligiani che di tattica e strategia sanno ben poco. Per loro è già stato abbastanza traumatico passare dai prati della Val Badia, alla città dei Cesari. Però, in quei giorni, qualcosa riescono a notarla anche loro. Le guardie sono raddoppiate, le strade di Roma, al contrario degli altri giorni, sono praticamente vuote. Che il momento della liberazione della città sia sempre più vicino è un altro segreto di Pulcinella.
Eppure, senza consultare la Giunta militare della Resistenza e all’insaputa degli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, il GAP dà avvio a quella che Norberto Bobbio definirà, nel 1984, “il più grosso errore della Resistenza”. Già, un errore. Non solo perché porterà alla tremenda carneficina delle Fosse Ardeatine, ma perché segnerà di lì in poi una recrudescenza nel sistema repressivo tedesco, un cambio di atteggiamento nei confronti delle popolazioni più indifese. Pensiamo alle stragi, Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, in primis. È lecito supporre che senza questo inutile attentato si sarebbero risparmiate migliaia di vite umane?
“Inutile”, certo. A che pro, infatti, uccidere soldati nemici con mansioni di sorveglianza, in una città che sta per essere liberata pacificamente, quando sai benissimo che per ogni avversario caduto, a dieci dei tuoi verrà chiesta la vita? Perché un’azione del genere quando il giorno prima, il 22 marzo, il direttore de “Il Messaggero”, Bruno Spampanato, scrive che il comando tedesco avrebbe ritirato a breve le sue truppe da Roma?!
Un’altra domanda senza risposta.
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Ci sono giorni che nascono già gonfi di presentimenti, pieni di segni; tanto che già al mattino ti convinci di aver capito cosa accadrà di lì fino a sera.
Il Polizeiregiment Bozen è acquartierato nelle soffitte del Viminale. Da lì, tutte le mattine, l’undicesima compagnia si reca marciando al Foro Mussolini, per svolgere le esercitazioni. Hans Dobek, al seguito in automobile, non si accontenta di esporre le “teste di legno” agli attacchi partigiani. Pretende che si facciano sentire, che cantino come tanti galletti pettoruti, che si mostrino entusiasti di servire il Reich. Come delle vere SS.
Il giorno in questione è il 23 marzo 1944. Ricorre il venticinquesimo della fondazione dei Fasci di Combattimento, antesignani del fascismo. In città è prevista una manifestazione. Il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini responsabile militare del PSIUP, morde il freno: vorrebbe concordare un’azione militare unitaria con i Gap. Si progetta di attaccare il corteo fascista in due punti diversi dai GAP e da una squadra delle Brigate Matteotti socialiste.
I nazisti sanno di questi propositi, così spostano la commemorazione fascista in un palazzo di Via Veneto, per motivi di sicurezza. Ciò nonostante, il battaglione degli altoatesini continua a essere esposto, passando rumorosamente per le vie del centro e, solo quel giorno, con i fucili carichi. Magari la sparo grossa, ma sembra quasi che vengano usati come una specie di esca. Ecco. L’ho detto...
Gli stessi gappisti devono averla notata questa strana aria di smobilitazione. Tant’è che le marce di quelli del Bozen si sono diradate… Il giorno 18 e il giorno 19 il plotone non si fa vedere. I dubbi serpeggiano nel gruppo di Calamandrei e degli altri. Il 20 eccoli di nuovo. Allora, progettano di agire il giorno seguente. Ma c’è un intoppo. Il 21 l’esplosivo non è pronto. E il 22 gli uomini di Dobek latitano nuovamente. I gappisti temono che non se ne faccia più nulla. In fondo Roma sta per essere evacuata. Gli americani sono alle porte della città. Eccetera.
Ed invece.
Il 23 marzo, l’undicesima compagnia si avvicina a Via Rasella. È strano, ma pure quel cagnaccio di Dobek, questo pomeriggio, non sembra più lo stesso. È agitato, continua a fare su e giù con l’automobile. E urla: “Ein Lied! Ein Leid, Schweine!”. E loro obbediscono, e vai con quell’odiosa canzoncina. “Hupf, mein Mädel”, Salta, bella mia… È ridicolo cantare motivi tanto allegri con le granate agganciate alla cintura, col pericolo di attentati, in un mondo impazzito.
Il compito di far brillare l’ordigno viene assegnato a Bentivegna, travestito da spazzino. Poco distante da lui, Carla Capponi, con un impermeabile da gettargli addosso, dopo lo scoppio. I due si sposeranno sei mesi dopo.
I gappisti devono attendere circa due ore in più rispetto alla consueta ora di transito della compagnia in via Rasella; il giovedì 23 marzo 1944 i soldati del “Bozen”, sono partiti in ritardo dopo l’esercitazione di tiro effettuata al poligono di Tor di Quinto e solo alle 15.45 la colonna sbuca da Largo Tritone e gira verso via Rasella. I plotoni sono quattro, uno in fila all’altro. Stranamente tutti i sottufficiali, e anche Wolgatsh e gli altri, sono stati chiamati a rapporto in cima al corteo. Sono due ore di ritardo che potrebbero portare all’annullamento dell’operazione. I negozi stanno per riaprire e le vie si stanno animando di passanti. Anche alcuni bambini si sono messi in coda al plotone scimmiottando la marcia dei soldati. E poi Bentivegna ha quasi finito il tabacco nella pipa, per l’accensione della miccia. Tanto è vero che, alle tre e mezza, Pasquale Balsamo gli passa vicino e gli dice: “Guarda che se alle quattro non sono venuti ti pigli il carrettino e ce ne andiamo”.
Un quarto d’ora dopo, la bomba esplode mentre è appena transitato il secondo plotone. Dodici chili di tritolo pressati in un contenitore di ghisa, a cui sono stati aggiunti sei chili di esplosivo e pezzi sfusi di ferro. L’onda d’urto è devastante. Vengono scardinate porte e finestre, un autobus viene scaraventato contro la cancellata di palazzo Barberini.
Dopo lo scoppio, i gappisti lanciano anche quattro bombe a mano.
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Ad essere onesti, non ne ricordo più la fonte. È un aneddoto che ho letto durante le mie ricerche per “Caro Alcide”, la biografia romanzata che ho scritto sullo statista trentino nel 2003. L’aneddoto è questo: al momento della detonazione, Alcide De Gasperi è in compagnia di Giorgio Amendola. L’esplosione fa tremare i vetri, così questi dice al trentino: “Sentito che botto?!”. Degasperi risponde: “Eh, voi comunisti, una ne pensate e cento ne fate”. Un dialogo strano. Quasi divertito. Nemmeno fosse scoppiato un mortaretto di San Silvestro o poco più.
A poche centinaia di metri, in Via Rasella, di divertente non c’è proprio nulla. A terra rimangono tra i 22 e i 26 uomini, alcuni dei quali orrendamente mutilati. Altri moriranno nelle ore successive. Molti dei superstiti porteranno i segni di quello scoppio per tutto il resto della loro vita.
Ci sono anche morti civili, “effetti collaterali” li chiameremmo oggi. Tra loro il dodicenne Piero Zuccheretti. Quel giorno, sta andando al lavoro in una bottega di ottica e da Piazza Barberini viene attirato da quella canzone sguaiata. Il suo povero corpo verrà completamente smembrato dall’esplosione. I piedi non verranno mai ritrovati. (Si badi: non è per morbosità giornalistica che mi soffermo sui particolari della sua fine, ma solo perché, a mio avviso, lui è l’emblema dell’assurdità di questo attentato). Il resto della compagnia sbanda. Com’è comprensibile c’è una gran confusione, urla, sangue, panico, paura. Anche perché non c’è un nemico contro il quale aprire il fuoco. Il nemico è nascosto, fuggito, volatilizzato. Ha tirato il sasso, ha nascosto la mano e ora probabilmente è in piazza Vittorio a festeggiare il successo dell’operazione e la propria incolumità.
I poliziotti altoatesini superstiti allora dirigono l’attenzione verso l’alto, alle finestre dei palazzi di Via Rasella. La bomba deve essere arrivata da lì. Non c’è altra spiegazione. Un vecchio affacciatosi viene freddato da un militare. Dobek è sconvolto, corre fra i corpi smembrati e quelli dei feriti urlando come un pazzo: “Correte, maiali, correte!”. Sul posto giungono immediatamente il questore Pietro Caruso, il generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, il diplomatico Eugen Dollmann e, insieme in automobile, il console Eitel Friedrich Moellhausen e il ministro dell’Interno della RSI Guido Buffarini Guidi, raggiunti in un secondo momento dal comandante delle SS Herbert Kappler.
Mälzer è furibondo (e, secondo le memorie di Moelhausen, ubriaco fradicio), ordina di portare dell’esplosivo e di far saltare in aria tutti gli edifici dell’isolato tra via Rasella e via delle Quattro Fontane. Solo Kappler riesce a farlo desistere da questo suo apocalittico proposito di vendetta.
Arrivano uomini del Battaglione “Barbarigo” della Xª Flottiglia MAS che, con i superstiti del Bozen, rastrellano la popolazione residente, trasferendola poi nelle cantine del Viminale. Ricordate? “Dieci vittime italiane per ogni vittima tedesca”. Dei rastrellati nella zona dell’attentato, circa 300 persone, dieci saranno tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine.
Al contrario del comandante Mälzer, il tenente Wolgasth, mantiene una calma tanto olimpica quanto disumana. Aiuta educatamente i feriti a salire sulle ambulanze. In ospedale vorrà sincerarsi delle condizioni di tutti i ricoverati, facendo loro perfino un regalo, un dono da vera superstar nazista: una sua foto con dedica.
Sembra finita, ma non è così. Alla sera, Dobek irrompe come una furia nelle camerate del Viminale. Vuole che siano quegli stessi “maiali” a vendicare i compagni ammazzati dai terroristi. Urla, si sbraccia, scalpita come un cavallo. Nessuno fiata. C’è troppo dolore in quella soffitta. Dolore per i compagni morti e, più che mai, nostalgia di casa. I soldati rifiutano di eseguire l’ordine. Franz, Peter, Toni e gli altri sono cattolici. Proprio loro dovrebbero farlo? Loro che quando stavano a Bolzano e venivano trovati nelle chiese erano obbligati a tornare in caserma sulle ginocchia?
Nessuno di loro prenderà parte all’eccidio. Eppure un memoriale consegnato alla Conferenza di Pace di Parigi, febbraio 1946, lo afferma esplicitamente. Ma non è tutto. Si parla di loro anche come responsabili dei rastrellamenti del 18 ottobre 1943, quando un migliaio di ebrei romani vennero avviati ai campi di sterminio. Un errore grossolano. In ottobre gli uomini di quel battaglione erano già da tempo nella caserma di Gries. Un errore che, pur appurato dagli storici, non è mai stato ufficialmente smentito.
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Negli anni del dopoguerra, su questa vicenda ci saranno polemiche e processi a non finire. Strascichi inevitabili. A partire dal 25 marzo 1944, quando al cimitero militare germanico di Pomezia, si tengono i funerali. I soldati caduti in Via Rasella trovano sepoltura in un prato lontano da casa. Trenta superstiti disertano e tornano a casa, in Alto Adige. Vengono denunciati e inquadrati in compagnie punitive, inviati al fronte orientale da cui non faranno più ritorno.
Poi silenzio assoluto.
Nel 1951, su proposta di Alcide De Gasperi, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi conferisce a Rosario Bentivegna la medaglia d’argento al valor militare. Negli anni Sessanta l’antifascismo militante riscrive alcuni particolari della nostra storia patria. Mussolini non godeva di alcun consenso, le foibe sono un’invenzione e quelli di Via Rasella non erano poco più che vigili urbani bensì delle feroci SS senz’anima. Fino a che, nel 1979, Umberto Gandini rompe l’incantesimo con quella famosa inchiesta, da cui emergono elementi nuovi. La sostanziale estraneità degli uomini attaccati in via Rasella alle SS, l’arruolamento forzato, la devozione cattolica e lontananza dal modello del soldato nazista, nonché i particolari della mancata partecipazione alla strage delle Fosse Ardeatine. Circa la sorte dei caduti, Gandini commenta: «Una volta premesso che nessun uomo merita di morire, ed accettata quindi solo per momentanea esigenza dialettica l’orribile logica che regola le vicende di guerra, si può dire che quel giorno di marzo, in via Rasella, morirono i soldati tedeschi meno tedeschi di tutti quelli che imperversavano in quegli anni per l’Europa; e i soldati tedeschi che meno di tutti “meritavano” quella fine, perché non avevano fatto assolutamente niente di male, non erano stati nemmeno messi nella condizione di poter fare del male».
Tante le cause civili intentate contro Bentivegna e gli altri in questi ultimi decenni. Tutte respinte. Con l’ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma dispone l’archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell’attacco. Il Giudice esclude la qualificazione dell’atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l’estinzione del reato a seguito dell’amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi “per motivi di guerra”. In seguito, la Corte di Cassazione continua (2007-2009) ad accogliere con regolarità disarmante i ricorsi e le richieste danni avanzati dalla figlia di Bentivegna e della Capponi, ribadendo che quello di via Rasella fu “legittimo atto di guerra contro il nemico occupante”. Ma non possono esistere, secondo il mio modesto parere, “atti di guerra” che possano considerarsi legittimi. Non ci sono vittime e carnefici in una storia come questa, ma solo vittime. Lev Tolstoj ha scritto che la pietà è una delle più preziose facoltà dell’anima umana. Eppure ad oggi, ventisei dei trentatré caduti di quella undicesima compagnia sono ancora sepolti anonimamente a Pomezia. Nessuno, né parenti né autorità politiche locali, dopo settantacinque anni, ha ancora chiesto di poterli riportare nella loro terra d’origine: l’Alto Adige - Südtirol.
“Sarà lecito almeno dire, – scrive ancora Bobbio – senza timore di essere accusati di essere fascisti o amici dei fascisti, che quei soldati morti in quell’agguato erano soggettivamente innocenti?” Da 75 anni si attende invano una risposta. ν