Daria de Pretis: una trentina a “Corte”


Daria de Pretis ci riceve a casa sua, in un elegante e austero palazzo di Via SS. Trinità a Trento. È nello studio legale qui accanto che per diversi anni ha esercitato la professione di avvocato, prima che la sua carriera prendesse altre strade: quelle che ci accingiamo a raccontare ai nostri lettori.
Al centro della stanza campeggia una enorme mappa del Settecento, raffigurante il Tirolo storico. È appartenuta a Bruno Kessler, suocero della professoressa de Pretis, nonché padre di Gianni, suo marito. Due i figli: Anna che lavora in uno studio legale a Milano e Bruno che studia Economia a Parigi dopo un triennio alla Bocconi.
Ci accomodiamo in un salottino carminio e cerchiamo di stemperare con qualche battuta iniziale un pelo di timore reverenziale che ci agita un po’. Certo non capita tutti i giorni di intervistare un giudice costituzionale, una personalità cioè facente parte dell’organo di controllo supremo della Repubblica Italiana.
Quali sono i suoi ritmi, professoressa? “Faccio un po’ la spola tra qui, Roma e Bruxelles, dove lavora mio marito. Mantengo buoni rapporti con l’Università di cui sono stata rettrice e poi la mia casa resta comunque a Trento, proprio qui”. La casa – per la cronaca – è quella storica della famiglia de Pretis, originaria di Cagnò in Val di Non.
Con un suocero presidente della Provincia autonoma di Trento e una famiglia d’origine con una tradizione imprenditoriale l’ha capito subito che non avrebbe fatto la casalinga… Che lavoro sognava di fare da piccola? “Certo avevo il sogno di fare qualcosa di concreto professionalmente; poteva essere architettura o medicina… Poi è finita che ho studiato diritto e…”
Insegnamento, esercizio della professione, carriera accademica: leggendo il suo curriculum si percepisce una sorta di concitazione, un rutilante bruciare le tappe. Riesce ad inserire anche una giusta quota di umanità in tutto questo? Daria de Pretis ride divertita. “Tutti i curricula danno questa impressione, forse. Mi sono laureata, sono rimasta a lavorare in università e contemporaneamente ho cominciato a fare l’avvocato. A me pare un percorso abbastanza normale fin qui. Poi proprio quando avevo deciso di prendere un anno sabbatico, mi è stato chiesto di candidarmi a Rettore”. Alle elezioni per il rettorato ha battuto cinque candidati uomini… È stata una batosta per noi… “Quando mi sono candidata ero in dubbio. Mio padre mi fece osservare che in fondo già essere candidata era un successo. In quelle occasioni contano il fatto di essere nuovi, rilassati (non avevo grandi ambizioni di cariche accademiche), porsi sulla scena in posizione intermedia, non massimalista. Questo evidentemente ha pagato”.
Certo, entrare come rettore in quell’Università pensata e preconizzata da Bruno Kessler all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, deve aver avuto un sapore particolare per lei. “Quando sono entrata nella stanza del mio predecessore ho visto che al muro erano appesa due foto: una del Presidente Napolitano e l’altra di mio suocero. La cosa mi ha fatto piacere e mi ha fatto al contempo riflettere, con emozione. Un’emozione molto privata, questo sì. In ogni caso era la stessa università in cui lavoravo da più di vent’anni. A mio suocero avrebbe fatto sicuramente piacere. Era una persona generosa, pronta sempre a cogliere il buono e a gioire con le persone dei loro successi. Sebbene in lui la dimensione pubblica prevalesse quasi sempre su quella privata: forse avrebbe apprezzato il fatto che per la prima volta c’era un trentino rettore dell’università”.
Tra i suoi meriti riconosciuti, in veste di Magnifico Rettore, quello di aver messo in pratica il concetto di “partecipazione”: i dipartimenti accanto al Senato accademico nella governance universitaria… È stato più un togliere potere al Senato o un dare valore ai Dipartimenti? “In realtà è difficile fare una comparazione, perché io mi sono insediata con uno Statuto tutto nuovo che prevedeva un sistema più accentrato, per me era importante mantenere la collegialità del governo. Mi fa piacere se il nostro lavoro in tal senso è stato percepito. È vero che lo Statuto concentra nel Senato i poteri di governo e di fatto c’è una specie di cesura tra questo organo e i Dipartimenti; per riequilibrare ho cercato di convocare molto spesso la Consulta dei direttori di Dipartimento e di coinvolgerla su tutti i temi”.

C’è il Quirinale al telefono. Bye bye rettorato

Ma passano venti mesi e arriva una telefonata da Roma: è il Quirinale. Daria de Pretis è tra i nomi scelti da Giorgio Napolitano per sostituire due componenti in scadenza della Corte Costituzionale.
Dica la verità, le è dispiaciuto dover lasciare il suo lavoro appena cominciato all’Università? “Sarò sincera, un po’ mi è dispiaciuto. Avevo finito la parte più dura e faticosa del lavoro di avvio. A quel punto arrivava in un certo senso il bello. In seconda istanza, ho temuto che tutto il lavoro fatto andasse perduto e non trovasse un seguito. Ma la terza cosa è che forse non avevo valutato nella giusta misura l’entità di quella nomina…” Possiamo dire che se n’è resa conto più tardi? “Un contesto tutto nuovo, lavorando a contatto di gomito per persone tanto autorevoli, un po’ di soggezione la dà. Poi si capisce che c’è lo spazio per fare bene il proprio lavoro, dunque…”
Una curiosità: ha scoperto attraverso quali strade o ragionamenti il Quirinale è arrivato a lei? “Ho cercato di capirlo e mi è stato detto che in queste occasioni il Presidente riceve una grande quantità di curricula, inviati direttamente o segnalati. Io certamente non l’avevo inviato e non credo nemmeno che qualcuno mi abbia – diciamo così – raccomandata. Probabilmente il Presidente ha raccolto spontaneamente nominativi che potevano corrispondere al profilo che aveva in mente; così il raggio si deve essere ristretto. Si cercava una donna (per la prima volta ci sarebbe stata una seconda, e quindi una terza donna), esperta di diritto amministrativo e qualcuno che avesse un po’ di apertura internazionale e non fosse troppo romano. Poi il fatto di essere Rettore potrebbe aver dato anche uno slancio in più.”

La CORTE COSTITUZIONALE: QUESTA SCONOSCIUTA

Scherzi del calendario. Il giorno in cui teniamo questa intervista – 15 dicembre 2015 – è l’anniversario dell’insediamento della Corte Costituzionale avvenuta esattamente sessant’anni prima.
Nel 1947, Palmiro Togliatti definì la Corte costituzionale una «bizzarria» grazie alla quale «degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici». E gli illustri professori della prima Consulta si sarebbero messi le mani nei capelli se avessero saputo che nel 2015 ci sarebbero state ben tre donne nel novero della Corte.
I cittadini pensano che l’elezione di giudici della Consulta sia una questione politica, lontana dalle loro vite. Dovesse spiegare all’uomo o alla donna della strada la sostanza del suo lavoro, in pochissime parole, cosa direbbe?
“È un peccato che il ruolo della Corte che non venga percepito nella sua importanza. La Corte è un organo che protegge i diritti garantiti in Costituzione e vigila perché la maggioranza non operi arbitrariamente. È un limite al potere della stessa maggioranza”. Tanto è vero che quasi tutte le Corti Costituzionali europee sono state istituite subito dopo l’epoca dei grandi totalitarismi del Novecento, nella convinzione che non sempre ciò che fa la maggioranza politica è la cosa più giusta”.
Un potere enorme, o sbaglio? “No, non sbaglia, è un potere enorme che si impone persino su quello del Parlamento. Un potere ‘tecnico’ nel quale però persiste un certo grado di politicità. Cioè la Corte non si limita a fare un calcolo matematico, ma compie un’operazione di valutazione e di bilanciamento di valori, quindi un’azione in questo altamente politica”.
Tuttavia pochi tengono presente – anche illustri e avveduti commentatori – che non è che la Corte può andare a controllare quello che vuole quando vuole. Bensì quando un giudice porta una legge alla sua attenzione, limitandosi – si badi bene – esclusivamente ai profili segnalati. Quindi potere enorme, è vero, ma con un limitato campo d’azione.
Qualcuno dice che la Corte supplisce alle mancanze del Parlamento… “In alcuni casi è proprio così. In molti Paesi le Corti stanno assumendo una grande importanza perché il legislatore molto spesso evita di confrontarsi con temi rischiosi dal punto di vista del consenso. Un esempio, le unioni di fatto. C’è un sentire comune circa l’esigenza che vadano regolate, la Corte stessa ha già sollecitato il Parlamento a farlo, ma il legislatore non si avventura nei tortuosi percorsi in cui l’argomento lo porterebbe...”

La bacchettata di “Report”: “Una lettura parziale”

La puntata di “Report” del 29 novembre scorso si è occupata proprio della Corte Costituzionale. I giudici italiani guadagnano il doppio dei tedeschi e quasi il triplo degli spagnoli. Cosa fanno in più? Loro si giustificano dicendo che è diverso il costo della vita… Daria de Pretis sorride e commenta con una malcelata punta di sarcasmo: “Sarebbe bello che questi servizi si occupassero di qualcosa di diverso dagli stipendi, come giustamente state facendo voi di TrentinoMese. Anche perché sapete come fanno certi servizi, interviste di ore delle quali magari vengono estrapolate solo poche frasi. Ma rispondo volentieri. “Intanto non è vero che sono gli stipendi più alti del mondo. Va bene raffrontarli a quelli dei collegi americani o tedeschi, ma bisogna calcolare che noi abbiamo un’imposizione fiscale che va sopra il 50%. Poi in Germania per esempio i giudici possono conservare una parte dello stipendio di professore universitario… Ci sono tante cose da valutare. Non nego che si tratti di stipendi importanti, ma anche la funzione è importante. E tanti componenti hanno rinunciato a professioni nelle quali guadagnavano certamente di più.”
A dire la verità, “Report” ha descritto il lavoro della Corte, ma solo in termini negativi. In particolare sulla famosa sentenza che ha stoppato Equitalia nella nomina di dirigenti senza concorso… “La questione è stata spiegata in termini faziosi e manipolati. La Costituzione dice chiaramente che al pubblico impiego si accede tramite concorso. E non è vero che la sentenza favorisce gli evasori perché gli atti dei dirigenti restano comunque salvi, in base ad un principio molto noto…”

quando la “corte” stoppa: bilancio, referendum, ecc.

In effetti, ci sono alcune critiche che potremmo definire “storiche”. Una è quella d’aver autorizzato, con la sentenza del 1966, il Governo e il Parlamento a procedere a una spesa pubblica più elevata rispetto alle entrate dichiarate dal bilancio, producendo così un aumento sconsiderato del debito pubblico. Molte critiche sono state rivolte, dagli anni Sessanta a oggi, soprattutto da parte dei Radicali in merito alle scelte fatte dalla Corte in materia d’ammissibilità dei quesiti referendari. Essendo infatti la Corte costituzionale l’organo chiamato a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum, essa dovrebbe, secondo queste critiche, limitarsi a dichiarare inammissibili soltanto i quesiti referendari che, a norma dell’articolo 75 della Costituzione, riguardino leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali: eppure ha frequentemente giudicato inammissibili quesiti referendari che nulla avevano a che fare con queste tematiche (per i Radicali di Pannella e Bonino siamo a 48 bocciature…)
Per rispondere, Daria de Pretis mostra di non doverci pensare nemmeno un minuto: “Sulla questione del disavanzo direi che il nuovo articolo 81 ha risolto tutti i problemi ponendo un vincolo di pareggio di bilancio al quale il legislatore si deve attenere. Tanto è vero che, per esempio, nella recente sentenza sulla Robin Tax la Corte ha compiuto un’operazione di bilanciamento facendo operare gli effetti della sua decisione solo per il futuro e non per il passato proprio a tutela dell’articolo 81.
Per quanto riguarda i referendum… Beh, qui la questione è delicata. La Costituzione dice che non possono essere fatti referendum su alcuni tipi di leggi, ovviamente. Dopo di che la Corte ha tenuto conto di altri profili, ugualmente rilevanti sul piano costituzionale, per esempio evitare che restasse priva di regolazione una materia essenziale per il funzionamento del sistema, o che all’elettore fossero sottoposti quesiti ambigui o complessi, sui quali non avrebbe potuto esprimersi con chiarezza con un sì o un no. E sulla base di questo presupposto ha giudicato inammissibili altri referendum.

12 mesi, 31 fumate nere (e una bianca...): epopea dei tre giudici “parlamentari”

A questo punto chiediamo a Daria de Pretis se sta bene o accusa alcuni sintomi influenzali… No, non siamo impazziti. I giudici emeriti Giovanni Maria Flick e Francesco Paolo Casavola ammoniscono che «bastano due raffreddori per paralizzare la Corte». In effetti da un anno la Corte Costituzionale sta aspettando la nomina dei tre giudici votati dal Parlamento. Sono 31 le fumate nere susseguitesi (l’elezione avviene due giorni dopo, mentre andiamo in stampa… per fortuna N.d.A.).
Si tratta di una situazione di una gravità assoluta perché la Corte rischia di ritrovarsi a decidere su questioni importanti e urgenti con una maggioranza ultraridotta. Pensiamo a quanto avvenuto in Francia, dopo il terribile attacco jihadista del 13 novembre, e all’introduzione di misure di emergenza destinate a incidere su diritti costituzionali. Per dire, ai tempi delle BR, Ugo La Malfa, chiese l’introduzione della pena capitale. E se dopo la Francia il terrorismo jihadista dovesse colpire anche il nostro Paese? La Corte sarebbe chiamata a decisioni di assoluta gravità e come potrebbe farlo con una formazione tanto ridotta? Oltre alle materie importanti su cui la Corte sarà chiamata a pronunciarsi nei prossimi mesi, dall’Italicum al referendum sulla riforma Boschi.
Professoressa de Pretis, lei come si spiega questa lunga impasse?
“Il problema vero è che, in assenza di ben 3 dei 5 giudici designati dal Parlamento, la Corte non opera nella formazione che il Costituente aveva previsto: con tre componenti che si mescolano: i 5 nominati dalle supreme Magistrature, i 5 nominati dal Presidente e i 5 eletti al Parlamento e cioè espressione popolare. Il fatto che manchino questi tre giudici è di fatto un‘alterazione del modello previsto in Costituzione, perché la bellezza giuridica della nostra Corte è proprio questa mescolanza. È un’impasse molto grave. Io non giudico, ma un Parlamento che non riesce a trovare un punto d’accordo su una questione tanto delicata è un Parlamento che ci interroga sul suo senso di responsabilità”.
Ma poi, scusi, a parte tutto, non è singolare che il Parlamento debba eleggere una parte dei Giudici della Consulta che poi saranno chiamati a valutare la costituzionalità delle leggi emesse dal Parlamento? Forse è proprio questa la “bizzarria” a cui faceva riferimento Togliatti nel 1947… “No. Anzi, non c’è niente di strano nel fatto che sia il Parlamento a scegliere i ‘saggi’ che giudicano le sue leggi, e lo deve fare con una larghissima maggioranza, in modo che si tratti di una scelta condivisa, semmai è paradossale che il Parlamento non li faccia. In fondo, è l’organo che ha più interesse a nominarli…”
È il tempo della terza parola della Rivoluzione francese
Sarete chiamati a breve ad esprimervi sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum. Nel gennaio 2014 la Corte Costituzionale si espresse, giudicando incostituzionale il sistema di elezione vigente (c.d. porcellum). Adesso con l’Italicum questo Parlamento – che, ricordiamolo, non gode di un vero mandato popolare – pare volersi orientare più sulla governabilità che sulla rappresentanza. Diversi costituzionalisti hanno visto questa legge come un tassello di un piano di “svolta autoritaria” più ampio. Qual è la sua lettura?
Daria de Pretis ha scosso il capo per tutta la durata della domanda... “Io non posso e non voglio dire nulla su questi argomenti…”. Ah... Va bene. Cambiamo argomento allora.
Secondo l’ex Ministro Elsa Fornero i giuristi si preoccupano dei diritti ma non dei costi di tali diritti. Non si preoccupano cioè del debito che andrà a pesare sulle future generazioni. È questo uno dei paradigmi del conflitto tra diritto ed economia. Condivide questa visione conflittuale fra le due discipline? “No. È un errore attribuire ai giuristi questa impostazione. Ed è sciocco porre la questione in termini di scontro fra discipline: diritto contro economia. Ci sono illustri economisti che teorizzano la bontà dell’indebitamento e giuristi convinti del valore giuridico dell’equilibrio di bilancio. Certo il tema del costo dei diritti è ineludibile. Spesso il costo di un diritto si traduce nella limitazione di altri diritti. Un bilancio in pareggio non è solo forma ma può essere la condizione per garantire altri diritti. Di questo la Corte tiene conto, e d’altro canto sempre più le Corti sono chiamate a valutare il bilanciamento tra i diritti e i loro costi.”
Altra domanda, altro conflitto. Nel suo libro Governare gli Italiani, Sabino Cassese – giudice emerito della Corte – scrive che lo Stato italiano “è sempre grosso e invadente, anche se poi, debole e inefficiente; e, tuttavia, indispensabile”. Lei come lo vede questo processo? Fino a che punto la libertà individuale può essere messa da parte a vantaggio dell’equità sociale? “Questo è il tema dei temi: uguaglianza contro libertà. Non possiamo assolutizzare una delle due, ma trovare un punto di equilibrio. Anche la relazione tra i due valori ciclicamente trova punti di equilibrio. L’espansione del potere pubblico ha avuto momenti di grande successo – vedi Stato sociale – poi contrazioni – la fase delle liberalizzazioni, negli anni ’80 e ‘90 – sono cicli che si ripetono. Il problema è quello di trovare un punto di equilibrio. Sono tutti e due valori irrinunciabili. Come qualche studioso dice, forse il tempo che ci aspetta, dopo l’uguaglianza e la libertà, è quello di riscoprire la terza parola della Rivoluzione francese, Fraternitè, e cioè solidarietà. Oggi il tema dell’uguaglianza e della libertà si intreccia con nuovi problemi. La libertà è insidiata anche dal tema della sicurezza, e la ricerca della sicurezza non può non passare per la giustizia sociale, e quindi per l’uguaglianza”.
Già, il mondo sta cambiando molto velocemente. Quello che ieri era scontato oggi appare più che incerto. Nascere in un posto non vuol dire crescervi e morirvi, pensiamo alle migrazioni. Come si fa ad obbligare un cittadino a rispettare le leggi di uno Stato che non ha scelto di abitare? Ma soprattutto, se paragoniamo i fenomeni geopolitici attuali ad un centometrista la nostra Costituzione assomiglia ad un centenario pieno di acciacchi. E se anche riuscissimo ad adattarla all’immanente oggi, nel lasso di tempo impiegato il mondo sarebbe mutato dieci, venti volte più velocemente. Esiste un modo per mantenere i principi fondamentali costantemente in linea con i tempi? “La nostra Costituzione ha dimostrato di essere efficace anche con il cambiamento dei tempi, e questo anche un po’ per merito del lavoro della Corte Costituzionale”.
“Lo strumentario a disposizione di chi vuole affrontare questi temi – continua de Pretis – non è nuovo; il problema è di calibrare gli strumenti tradizionali su sempre nuove esigenze di protezione dei diritti. Rispetto alle migrazioni, vengono in evidenza in modi nuovi i diritti per esempio di libertà di espressione, di manifestazione del pensiero, ecc. I nuovi diritti – di cui tanto si parla – non sono altro che facce di quei vecchi diritti del 1948 che vanno continuamente reinterpretati”.
I tempi non sono un po’ troppo lunghi? Scusi se insisto su questa domanda… I tempi della politica... “Che la politica sia in crisi, che siano i crisi i suoi meccanismi, la cinghia di trasmissione della rappresentanza, è cosa universalmente riconosciuta. Non è solo un problema di Diritto Costituzionale, evidentemente…”

DEMOCRAZIA E SCHIAVITÙ:
CONVIVENZA IMPOSSIBILE?

Secondo lei è possibile che democrazia e schiavitù convivano in uno stesso sistema sociale? Mi spiego: oggi spesso la gente è schiava di sistemi che si reggono su un culto feticistico del denaro, i giovani non sono presi in considerazione ma “utilizzati”, senza diritto a un vero lavoro. Insomma, una società con un tasso di disoccupazione giovanile maggiore del 30% può ancora definirsi democratica?
“È vero quello che dice e dobbiamo tutti interrogarci su quanto questa condizione ormai intollerabile incida proprio sui diritti fondamentali previsti in Costituzione. Questo, della disoccupazione giovanile, è forse il problema più drammatico del momento. Io l’ho vissuto dall’altra parte della strada (proprio qui di fronte c’è la sede del rettorato), perché quando uno fa il Rettore ha lì migliaia di studenti che si laureano ogni anno e che vanno sul mercato del lavoro e, benché siano davvero il meglio della nostra gioventù, quel mercato non è in grado di assorbirli.”
Qual è il consiglio che dava lei a questi studenti “non assorbiti”?
“Intanto di scegliere con accortezza la facoltà universitaria, valutando inclinazioni e sbocchi lavorativi. La seconda, di essere imprenditori di loro stessi. Ad un certo punto, se proprio non si trova il lavoro alle dipendenze di qualcuno, l’unico modo per uscire dall’impasse è quello di provare ad inventarsi il lavoro da sè. Ci sono molti esempi, pensiamo alle start-up, Andare al’estero… Certo, spesso quelli che vanno all’estero sono i migliori e li perdiamo irrimediabilmente. Sono risorse su cui abbiamo investito e di cui non possiamo più disporre”.

“Bando al pessimismo:
entusiasmo e voglia di fare”
Ci salutiamo su una frase tratta dal 49esimo rapporto annuale del Censis sulla situazione del Paese; il Presidente Giuseppe De Rita spiega che viviamo ancora «in letargo esistenziale»; siamo un Paese «non più capace di progettare il futuro». Daria de Pretis cosa ne pensa? “Io invece, sopratutto da Rettore, ho visto molto entusiasmo in questi giovani, tanta voglia di fare, grandi risultati e successi. Non sarei così pessimista. Abbiamo attraversato un momento nerissimo, ora io vedo una luce in fondo al tunnel”… Professoressa, orsù, le stesse identiche parole dette da Mario Monti nel 2012! “Ah sì?! Beh, io dico che abbiamo tante risorse, soprattutto risorse umane che ci consentono di guardare al futuro con un certo entusiasmo. Tutto qui”.

Lasciamo la professoressa ai suoi impegni e al suo immediato ritorno a Roma. È l’unica trentina ad occupare un posto istituzionale di rilievo: nel Governo Renzi al mezzo milione di trentini – corregionali di un certo Alcide Degasperi – non è stato concesso nemmeno uno straccio di sottosegretario. “I trentini godono di una buona reputazione”. Non ci confondono più con Trieste? “A dire il vero, qualche volta sì”, ammette.
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