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LENZUOLA APPESE ALLE FINESTRE, COME ALLO STADIO. E SE CI RIPRENDESSIMO LA NOSTRA LIBERTÀ?

È curioso che in un’epoca in cui, grazie ai prodigi del web, formulare un pensiero e divulgarlo al mondo intero è oramai un tutt’uno, si ricorra a distici di dubbia rima spennellati su lenzuola. Animale strano l’uomo. Ora che con le mail ed un po’ di intuito possiamo scrivere praticamente a chiunque – il premier del Canada, il patron di Luxottica, Richard Branson, il Papa – quasi sicuri di essere letti, quanto meno da una segreteria, ci accaniamo ad esporre lenzuola per manifestare il dissenso al povero Ministro dell’Interno. È anacronistico, nostalgico, calcistico o quel che volete, ma mi pare efficace. Dannatamente efficace. Perché colpisce. Più del più aspro e cafone dei commenti social.
Ho cercato di pensare a quale può essere il motivo di tanta efficacia. Come è possibile che un gesto “tribale” – esporre un lenzuolo con un messaggio – colpisca più delle migliaia di improperi che ogni giorno piovono su Facebook o su Twitter? Ebbene, sono arrivato alla conclusione che questo gesto funziona semplicemente perché è “reale”. Accade per davvero. Non è il frutto di un algoritmo che elabora una serie di 0 e 1 e lo traduce in scrittura.
La sbornia virtuale ci ha portati a
sdoppiare le nostre esistenze sui pianeti social, a cambiare la stessa percezione della realtà, del significato che diamo alle nostre azioni e alle nostre parole. Una sbornia durante la quale l’intero vocabolario dell’esistenza ha mutato le proprie definizioni, al punto che alcune parole come “condivisione”, “libertà”, “impegno” o locuzioni come “mi piace” sono diventate altro. Altro da noi.
Adesso, forse per la prima volta da quando è accaduto tutto ciò
proviamo a ribellarci alla dittatura dei pixel. Improvvisamente, esporre la propria opinione alla finestra di casa ci fa provare una sensazione nuova. Una libertà di cui serbavamo segretamente un vaghissimo ricordo. La libertà del reale e del tangibile. Un gesto che ci dice chi siamo stati prima che arrivassero Jobs, Zuckerberg e soci a metterci in catene. E Salvini – badate – tutto sommato, c’entra ben poco, lui, in questo frangente. Lui è solo il pretesto per ricominciare a respirare. Per capire che si può essere uomini e donne anche senza uno smartphone e un social network. Si chiama ”libertà“. Dobbiamo solo reimparare ad usarla. I suoi effetti, a lungo andare, non potranno che giovarci.

CRONACA DI UNA CONNESSIONE

Quindici boccate all’alba, non una di meno non una di più. La testa china sul cellulare prelevato dalla tasca con un gesto naturale – come uno sbadiglio –, un paio di tocchi rapidi per connettersi. Una sigaretta, dose quotidiana di nicotina da inghiottire avidamente a pieni polmoni, tra foto, link, notizie. Quindici boccate per arrivare al filtro biondo. Quindici boccate durante le quali connettersi, prima di lavarsi, del lavoro, dei figli, della moglie, della routine quotidiana. Una mattina, mentre con gli occhi sul telefono si apprestava a rientrare in casa, un chiocchiolìo lo distolse dallo schermo, una sagoma scura appoggiata sulla ringhiera del terrazzo a pochi metri da lui, troppo piccolo e slanciato per essere un piccione. Fu un attimo, poi volò via. La scena si ripetè, mentre lui, sulla soglia dei cinquanta, il sonno leggero e la brutta consuetudine di fumare appena sveglio, a malapena degnava d’uno sguardo il volatile, troppo preso con le sue dita a “mipiacizzare”, commentare tra video, hashtag, inviti, messaggi, gruppi. Finchè un giorno, il fischio insistente di quel merlo testardo, dal piumaggio di un nero brillante, riuscì a distrarlo. Era appena svanita la notte, la campagna ancora ricoperta di quel bianco di gelo, si voltò di scatto ed il merlo volò via rapido. Un secondo dopo, con prudenza, sbucando fuori dalla campagna tornò ad appoggiarsi alla ringhiera del balcone. I due, immobili, sembravano fissarsi. Fu un attimo e un’abitudine si incrinò. Fu in quel preciso istante che l’uomo, mentre spegneva il mozzicone, si sentì inebriato da un’eccitazione di cui aveva perso memoria. La bocca si aprì ad un sorriso, entrò, aprì la credenza, prese rapidamente un biscotto che andò a sbriciolare sul balcone. Il merlo spiccò un volo inaspettato e si allontanò, il sorriso dell’uomo svanì con esso. Ci rimuginò tutto il giorno e, l’alba seguente, uscì con uno spicchio di mela che posizionò vicino alla ringhiera, mentre accendeva la sigaretta. Il merlo non tardò, i movimenti circospetti durarono qualche minuto, finchè non iniziò a beccare. Fu allora che l’uomo pensò occorresse scattare una foto e si trovò stupito di se stesso, della sua dimenticanza: lo smartphone era rimasto da qualche parte all’interno della casa. L’uccello sembrò intravedere le sue intenzioni e si dileguò rapido. Le mattine successive l’uomo uscì sempre puntuale, alcune volte armato di semi di girasole altre di uno spicchio di mela, ogni volta sfornito del telefono, pensando avrebbe fatto scappare il suo nuovo amico piumato. O, forse, resosi conto di quanto attraverso quello strumento la corporeità fosse assente insieme alla parte più vera delle persone, della vita. Quindici boccate per godere appieno di quella nuova abitudine in cui si ritrovava “connesso” con il mondo. E da quel giorno non si trattò più di quello virtuale.

STIAMO PERDENDO LA MEMORIA, MA ABBIAMO TANTA NOSTALGIA

Tra i tanti paradossi che la nostra epoca vive (uno molto interessante lo trovate nel ring di questo mese di Silvia Tarter) è legato al rapporto tra memoria e nostalgia. La situazione è la seguente: da un lato abbiamo le nuove tecnologie che ci stanno rimbambendo al punto da non ricordare più nemmeno la lista della spesa o la targa della nostra auto o il codice fiscale. Per non parlare del senso dell’orientamento che nella razza umana oramai non si sviluppa ulteriormente una volta raggiunta la veneranda età dei cinque anni. Fotografie, ricordi, corrispondenza: affidiamo tutto alla memoria di Internet, come fosse un enorme hard-disk. Ma nella guerra mondiale contro la memoria ci va giù pesante anche il mondo della scuola che del nozionismo dei nostri padri non sa più che farsene. Nessun insegnante ormai si azzarda più a far imparare a memoria “Il cinque maggio” o la tabellina del nove.
Al contempo però assistiamo al grande spolvero di tutta una serie di giorni della memoria. Storica, questa volta. Teniamo a mente ogni giorno il genocidio dei cartaginesi e non rammentiamo il pin del conto corrente. È quasi un’ossessione questa di ripercorrere annualmente brutali stermini e orrendi soprusi con la convinzione che solo così facendo potremo scongiurare un loro ripetersi.
Ma veniamo ora alla nostalgia, il lato emotivo della memoria. La cosa più assurda di tutte è che in tanto dimenticare la nostra modernità pare letteralmente impregnata di nostalgia. Non solo in senso politico e ideologico. Se da un lato stiamo perdendo lentamente la memoria dall’altro rimpiangiamo un passato recente di cui in realtà ricordiamo ben poco: se non che ci piaceva e ben si addiceva alle caratteristiche del nostro vivere. Quante volte sentiamo ripetere: “Allora sì che si stava bene!”. Magari non avevamo da mangiare, il bagno era sul poggiolo, per fare una telefonata dovevamo andare in bottega, per comporre un giornale bisognava farsi ogni volta un aerosol di piombo, ma cavoli se “si stava bene”. Abbiamo nostalgia di tutto. Dei gruppi musicali, delle minigonne, dei vinili, della Cinquecento. Fioriscono serie tv ispirate agli anni Ottanta, Novanta. Di tanto in tanto viene riesumata qualche cariatide vip affinché, rendendosi ridicola in un reality show, plachi la nostra sete di rimpianto. La domanda è: perché? Perché continuiamo a guardare indietro in questo modo? Perché non ci lasciamo tutto alle spalle e non ci proiettiamo una volta e per tutte verso il futuro? Forse la sparo grossa, ma la scrivo lo stesso. Forse la nostra cultura – intesa come sfera del vivere – è solo il pallido ricordo di ciò che era venti o trent’anni fa. E la cosa ci spaventa non poco. Per questo evitiamo come la peste lo sguardo minaccioso di questo oscuro presente.

C’È UN SOLO MODO PER RENDERLO FELICE: PERMETTERGLI DI USARE IL CORPO E LA MENTE!

I latini dicevano: “Mens sana in corpore sano”, certamente riferendosi alla nostra specie. Eppure, mai un tale detto potrà essere più calzante per il nostro amico a quattro zampe, essendo egli stesso bisognoso di esprimersi tanto con il fisico, quanto con il cervello.
Molti studi sono stati svolti negli ultimi decenni sul benessere del cane ed è ormai assodato che un corretto esercizio fisico, ed una buona dose di attività cognitiva, siano da considerarsi i migliori ingredienti per un’esistenza felice e appagante. Addirittura, richiamando i tanto diffusi “disturbi del comportamento”, si sarebbe dimostrato che l’applicazione di una giusta “formula di attività” nei confronti di chi ci sta accanto sarà il primo strumento di prevenzione circa l’insorgenza delle più svariate problematiche di gestione.
Dal punto di vista fisico, infatti, la possibilità di dedicarsi ad un movimento ripetuto e costante consentirà la produzione di particolari sostanze chimiche, chiamate endorfine, la cui proprietà permetterà di fornire una condizione di benessere all’interno dell’organismo. Ciò, sarà particolarmente garantito nel caso di vere e proprie attività “aerobiche”, ove i muscoli vengono maggiormente sollecitati, insieme ad un aumento della frequenza cardiaca. Non sembrerebbero bastare, quindi, le sole passeggiate al guinzaglio attorno all’isolato, essendo il nostro amico particolarmente resistente alle andature camminate. In quest’ipotesi, infatti, egli non potrebbe far fuoriuscire tutta l’energia in esubero, rimanendo una condizione di “ristagno” che potrà, in talune condizioni, estrinsecarsi in comportamenti “sostitutivi” non sempre corretti.
Oltre all’esercizio fisico, non dovremo non dedicare tempo ed attenzione ai c.d. “processi cognitivi”, tali da permettere di attivare altre zone del cervello correlate al ragionamento e alla memoria. Molto utili potranno divenire gli esercizi di educazione generale, di estrema importanza anche in funzione di una corretta gestione quotidiana. Imparati quelli basilari, come il rispondere al richiamo, il camminare al passo, il sedersi, il mettersi a terra, il dirigere lo sguardo verso di noi, e così via, potremo dilettarci in operazioni più complesse, sino a richiedere lo svolgimento di azioni di differente difficoltà in molteplici luoghi. Se ciò non bastasse, sarà possibile cimentarci in attività “cinofilo sportive”, pur sempre nel rispetto delle competenze e delle potenzialità di chi abbiamo a fianco. Al di fuori di ogni velleità performante, sarà di elevato divertimento dedicarci a discipline in cui entrambi, noi e lui, vivremo nuove e proficue esperienze. Una tale impostazione di vita sarà garanzia di una crescita del rapporto cane e proprietario, divenendo sempre più intense la fiducia e la dedizione reciproca. Ancora una volta andrà a beneficiarne il benessere del nostro cane, giacché anche l’impiego del ragionamento implicherà la produzione di altre sostanze cerebrali, come la serotonina, atte a garantire una serenità psico fisica a lungo termine.
Le ricerche più recenti hanno, altresì, suffragato una tale impostazione di attività, evidenziando come ogni individuo canino richiederebbe, nell’arco di un’intera giornata, una media di tre/cinque ore di coinvolgimento motorio, sensoriale, emozionale e cognitivo. Senza farci spaventare da queste cifre, potremo avvalerci di efficaci metodi di sollecitazione, pur mantenendo i nostri inevitabili impegni quotidiani e lavorativi. Un buon sistema potrà consistere nel sostituire il rilascio dei pasti in ciotola con interessanti strumenti di attivazione, grazie ai quali il nostro amico potrà dedicare molto del tempo a disposizione a “cacciare” la pappa del momento. Esistono in commercio diversi “giochi” preposti a tale funzione, come i contenitori in gomma dura, le palline con fori dai quali far fuoriuscire le fatidiche “crocchette”, le piramidi “bucherellate” e tanti altri sistemi per consentire ad ogni cane di essere cane. Questi oggetti di apparente semplicità potranno azionare quei movimenti istintivi ereditari tipici di un predatore come realmente è il discendente del lupo, creando situazioni di caccia “immaginaria” alla stessa stregua di ciò che accadrebbe in natura: ricerca, individuazione, inseguimento, raggiungimento, uccisione, dissezione e ingestione della preda. Così facendo, destinando per ogni singolo pasto una buona manciata di minuti al giorno, persino mentre ci staremo preparando per andare al lavoro, ovvero svolgendo le faccende domestiche, egli attiverà mente e corpo alla ricerca delle migliori soluzioni per ottenere l’ambita pappa, per poi sdraiarsi in cuccia senza alcuna velleità di malanni.
Queste semplici regole di attivazione “mentale” dovranno essere mantenute anche con il passare degli anni, essendo fondamentale che persino in età senile i nostro amici possano sentirsi protagonisti in azioni dirette a procurare loro benessere. Nulla sarà, infatti, più svilente di essere ritenuti ormai inidonei ad ogni coinvolgimento “operante”, essendo ulteriormente acclarato che una programmazione psico – fisica aumenterà l’aspettativa di vita di ogni essere vivente. Al contrario, la mancanza di corse, esercitazioni mentali, condivisioni sociali ed esplicazioni istintuali, sarà considerabile a tutti gli effetti come una pericolosa forma di maltrattamento.
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QUANDO UNA SEMPLICE SIEPE DIVENTA UN LIBRO APERTO

Di fronte alle aule in cui insegno c’è una lunga siepe, formata da diverse piante, alcune sempreverdi, altre in balìa delle stagioni. Nessuno fa caso a questo intricato sistema vegetale: all’interno delle quattro mura scorrono inesorabili le lezioni, da quelle inerenti alle scienze della terra a quelle delle altre discipline teoriche e pratiche. Tutti gli studenti hanno gli occhi puntati sulla lavagna interattiva, seguendo – chi con attenzione, chi stancamente, altri sognando ad occhi aperti – segni, geroglifici, sistemi matematici. Intanto, a pochi metri, attorno, dentro e sopra la siepe c’è un continuo e sbalorditivo traffico di uccelli: ci sono il comune merlo che litiga con il proprio fratello, il cardellino che cerca di fischiettare delle sonorità benché bloccato dal freddo e i soliti passeri che, come gli studenti, amano far mischia (leggi “casino”). Poi c’è il signorile pettirosso che, al cospetto degli uccelli più grandi di lui, gonfia il petto esaltando ancor di più quello splendido color arancio-rosso. Non dimentichiamo neppure il lucherino, il trentino lugherìn – no ‘l magneria gnanca le lengue de lugherin, si dice di chi non ama neppure le rare prelibatezze –, sorta di fringuello con livrea verdina sul dorso e gialla sul ventre. In alto svolazza chiassoso il corvo mentre il picchio, imperterrito, continua a salire e scendere per i secolari cedri, alla ricerca di qualche larva. C’è un viavai da far impazzire ogni ornitologo. D’altronde si sa che le siepi, da tempi immemorabili, sono protette, coltivate, gestite. Perfino la Provincia autonoma di Trento, tramite il Servizio Agricoltura, fornisce a titolo gratuito il materiale vivaistico idoneo per la costituzione di siepi di confine su superfici coltivate. Ma ancor più importanti sono le siepi di città, quelle urbane, perché riescono a svolgere innumerevoli ruoli. Innanzitutto quello di confine, di divisione tra un territorio ed un altro, tra una proprietà ed un’altra. Più alta è la siepe più il soggetto racchiuso al suo interno è timido, chiuso, riservato, legato alla privacy. Nel caso della “mia” siepe, questa divide due spazi pubblici, quello della scuola e quello di un giardino altrettanto pubblico: il massimo per chi decide di seguire le vite dei suoi abitanti, potendo osservarli da tutte le parti senza incorrere nelle urla dei proprietari. Le siepi svolgono il ruolo di frangivento, catturano polveri ed inquinanti, proteggono il suolo dall’erosione dell’acqua piovana trattenendo allo stesso tempo l’umidità che serve per la loro sopravvivenza, proteggono dai rumori disperdendo le onde sonore, aumentano al contempo la biodiversità, hanno una funzione estetica – se un giardiniere sa interpretare l’anima delle piante può indirizzarle nella costruzione di veri e propri meandri vegetali – e una protettiva. In un paesaggio ricco di siepi vivono cinque volte più specie animali rispetto ad una campagna “ripulita”. Oltre ai miei cari uccelli, sono in primaverile attesa di veder arrivare coleotteri anche rari, farfalle e piccoli mammiferi – i topolini di campagna sono uno spasso, per non parlare del toporagno –: tutti questi hanno la loro culla nella siepe. E non vanno dimenticate le api, le lucertole e i rospi. I biologi e i naturalisti ci dicono che in una siepe possono dimorare oltre 1200 specie animali.
La siepe, inoltre, è una piccola oasi: tante oasi formano una rete ecologica che collega tra loro biotopi, boschi e corsi d’acqua, permettendo agli animali e agli insetti di spostarsi con comodità e sicurezza. Inoltre abbelliscono il paesaggio: arbusti, siepi, boschetti e singoli alberi conferiscono – soprattutto nelle aree ad alto valore ricreativo dell’arco alpino, ma anche urbano – una notevole attrattiva al paesaggio coltivato. Pensiamo alle testimonianze di antichi metodi di coltivazione, ai tradizionali paesaggi di campagna, di collina e di montagna che incontriamo durante le nostre passeggiate, che segnano il territorio in cui viviamo, diventando una valenza storico-culturale in cui si può leggere la storia del nostro habitat.
Nella vicina Provincia autonoma di Bolzano, ad esempio, le siepi sono protette, lo sfalcio non deve avvenire prima del 31 luglio ed è vietato l’impiego di fertilizzanti e pesticidi, erbicidi inclusi. Anche qui in Trentino c’è una legge che ne protegge la presenza, ma in certi paesi o nei pressi delle abitazioni private non facciamo fatica a leggere quelle strisce di erba ingiallita, sintomo e segno dell’uso di erbicidi.
Ma, ritornando all’inizio, la siepe che si para di fronte ai miei occhi diventa, giorno dopo giorno, un libro aperto su cui creare vere e proprie lezioni: insegnamenti legati all’educazione civica, al rispetto degli altri e delle diversità, alla scienza, alla biologia, ai colori che impreziosiscono la scenografia della siepe e che, sapendo coglierne le potenzialità, i miei allievi possono trasferire in trucchi e colori di acconciature. Per non parlare della musicalità, del piacere, tra il caos urbano, di percepire il mondo che sta fuori di noi, questa fonosfera ricca di insegnamenti, come ci hanno indicato già secoli fa i letterati e i naturalisti romani.
Ebbene, la siepe come primo libro di scuola, gratuito, alla portata di tutti, leggibile e interpretabile da tutti. Sulla siepe si possono costruire una pedagogia e una filosofia del rispetto, dei ruoli e della divisione degli stessi. Per la siepe entra in campo pure Giacomo Leopardi e gli occhi dell’uomo si possono perdere nell’infinito. Insomma, un mondo si apre, per chi sa coglierlo.

L’ILLUSIONE IN UN GERMOGLIO: QUANDO L’UOMO PROVA A FORZARE LA NATURA

Certo che noi umani siamo proprio degli esseri stravaganti! Uno spettacolo davvero interessante, se qualcuno ci potesse osservare da lontano.
Irrimediabili sognatori, ambiziosi e vanitosi esploratori, mossi dalla curiosità di spingerci al massimo delle nostre possibilità, varchiamo ogni limite, oltrepassiamo ogni confine, anche quello terrestre ed atmosferico, per dimostrare la nostra intelligenza, la nostra capacità di plasmare la natura per assecondare le diverse esigenze, grazie al sapere sviluppato nel tempo.
Non sempre però ci riusciamo.
Il 3 gennaio scorso la sonda cinese Chang’e-4 ha raggiunto il lato nascosto della luna, fino ad oggi mai raggiunto, per esplorare la sua superficie e capire se al di sotto ci possano essere delle riserve idriche.
Un altro obiettivo della spedizione era però provare, per la prima volta, se in assenza di gravità potessero crescere delle piantine sul suolo lunare. Così, partiti dalla Terra, alcuni semi di cotone, di patata e di arabetta comune, (oltre a uova di moscerino della frutta) sono finiti sulla luna. Sono arrivati in un recipiente con del terriccio, acqua ed aria, con un’apertura per far filtrare un po’ di luce e permettere la fotosintesi.
E, meraviglia, quelche giorno dopo, ecco delle foglioline fare capolino timidamente: è spuntato il primo germoglio di cotone. Il primo germoglio di vita sulla luna! In assenza di gravità, sottoposto a forti escursioni termiche... incredibile! La notizia ha acceso una scintilla di entusiasmo e di speranza. Subito alcune ipotesi tra le più fantascientifiche sono apparse meno impossibili: si è parlato di provare a coltivare forme di vita al di fuori della Terra, di creare delle serre con degli orti lunari, in grado di fornire approvigionamenti di cibo per gli esseri umani. Ve lo immaginereste? Di andare a raccogliere le mele sulla luna in futuro?
Peccato che questo germoglio di speranza lunare si è rivelato in breve tempo una pallida illusione. Dopo pochi giorni infatti la piccola piantina di cotone è morta congelata, non è riuscita a sopravvivere, a fronte di temperature notturne che possono scendere anche di cento gradi sotto lo zero. Gli studiosi dell’Università di Chongqing – che ha progettato l’esperimento – hanno affermato che era previsto che la piantina non avrebbe resistito a tanto freddo.
Come si può infatti pensare di poter coltivare delle piante in un luogo dove le temperature oscillano anche tra i + 100 e i – 100 gradi e dove le notti durano due settimane? Sembrerebbe assurdo, irragionevole!
Eppure noi ci proviamo, proviamo a forzare e superare i limiti. Fa parte della nostra natura. Ed è anche uno degli aspetti più affascinanti della nostra specie. Allo stesso tempo però sappiamo essere molto contraddittori. Perché infatti guardiamo alla luna, andiamo alla ricerca di nuove fome di vita su Marte e allo stesso tempo lasciamo che la Terra soffra, per causa nostra senza cercare seriamente di curarla. Troviamo le risorse economiche per spedire missili nello spazio, ma non per risolvere il dramma della povertà, che affligge quasi un miliardo di persone del pianeta. Siamo in grado di costruire tecnologie avanzatissime, resistenti alle gelide temperature spaziali, ma non riusciamo a modificare le nostre semplici abitudini, il modo in cui ci muoviamo, il cibo che mettiamo nel piatto ogni giorno, gli acquisti che scegliamo, la quantità d’acqua che utilizziamo... Rinunciare, o modificare in parte il nostro stile di vita consolidato sembra costarci uno sforzo immane.
Perché, se siamo per natura dotati di tanta intelligenza, non riusciamo a cercare di proteggere quanto abbiamo di più caro, questa Terra che ci nutre, che ci permette, ogni giorno, di rimanere in vita? Questa Terra che ci offre innumerevoli paesaggi spettacolari: la vertigine di montagne che guardano solennemente al cielo, l’incredibile natura delle foreste, dalle sterminate distese di conifere dell’emisfero Nord alle coloratissime foreste tropicali brulicanti di biodiversità, l’universo subacqueo che popola i suoi mari ed oceani, fonti di vita e di cibo, la bellezza immacolata dei suoi ghiacciai... Una natura che è tuttora fonte di mistero, che nonostante il nostro sapere non riusciamo ancora a decifrare completamente.
Ma a volte capita di non riuscire ad apprezzare ciò che si ha, di darlo per scontato, e di rivolgere il proprio sguardo anelante verso un ipotetico altrove, che, vago e misterioso come un verso di Leopardi, riesce ad attirare maggiormente la nostra attenzione. Come quando si abbandona il paesino per fare fortuna nella grande città, o quando si lascia il proprio paese per andare all’estero... l’altrove sembra portare con sé intrinsecamente quasi una soluzione ai vari problemi.
È buono e giusto cambiare, muoversi, conoscere ed esplorare. Sacrosanto! Ma occorre anche avere il coraggio di mettere a fuoco quali possano essere le priorità, le urgenze da risolvere per poter agire di conseguenza. Forse non ha così senso provare a coltivare piante sulla luna, se sulla Terra alcune coltivazioni invece muoiono, danneggiate da prolungata siccità, da calamità naturali sempre più intense e frequenti, dall’impoverimento della fertilità dei suoli.
Anche qui abbiamo una missione da compiere. Una missione terrestre che rappresenta una grande sfida, ma anche l’opportunità per tirare fuori il meglio di noi, per far germogliare le migliori idee, collaborando uniti, come coinquilini di un’unica casa comune.

MONTAGNA, ALLA RICERCA DEL SILENZIO. IL RAPPORTO DI UNA COMUNITÀ CON IL SUO TERRITORIO

Nuova Giunta, nuova direzione. Il governo provinciale a trazione leghista ha conquistato il consenso popolare, pur restando minoranza nei voti dei trentini, puntando tutto sulla linea dura contro migranti e richiedenti-asilo. Ma il messaggio portato avanti da Fugatti, che ha capitalizzato l’astio diffuso in ampi strati sociali verso gli stranieri, comprende un’inversione di rotta anche sul fronte ambientale, la cui gestione (più o meno) attenta dei decenni passati ha consentito di tenere lontane molte speculazioni (non certo tutte…) e hanno consentito al Trentino di mantenere un’impronta ecologica se non integra, meno critica che altrove. In particolare, il centrodestra ha fatto sua un’impronta “sviluppista” per quanto riguarda l’ambiente di montagna. In una recente intervista, l’assessore Failoni ha dichiarato di considerare intoccabili le aree protette, ma ha dato la sua benedizione all’avvio di opere e iniziative di valore economico sul restante 70% del territorio provinciale. Dunque, “via libera” allo sfruttamento della montagna, in tutti i casi in cui non sia “protetta”? Legare in maniera così diretta la tutela del territorio ad una definizione di stampo “legale” come quella di “area protetta” è rischioso. Ci sono aree di pregio che non sono aree protette e che meritano ciò nonostante di essere tutelate. L’esempio più eclatante è quello di Madonna di Campiglio, dove l’anno scorso (con la giunta precedente) 3800 persone sono accorse a 2100 metri per ascoltare il concerto del dj francese Bob Sinclar. Ora, al di là del merito artistico di tale esibizione, su cui sorvoliamo, iniziative come questa, che, stando alle promesse della nuova Giunta, potrebbero essere la “nuova norma”, mettono a repentaglio il rapporto di una comunità con il suo territorio. L’antico amore dei trentini verso le loro montagne deflagra contro il nuovo corso dello sviluppo economico e turistico a tutti i costi (purché fuori dalle aree “protette”). Si leggono in questi giorni appelli per salvaguardare il “sacro silenzio” della montagna contro lo strapotere dell’interesse economico. A ben pensarci, c’è di che essere preoccupati. Ormai non c’è luogo pubblico in cui non risuonino altoparlanti gracchianti da cui escono le note sgangherate della nuova “hit”. Lasciamo che la montagna risuoni delle sue eco, sospiri dei suoi venti. Respiri la sua aria pulita, ci liberi del puzzo dello smog. Lasciamo che la montagna resti lassù, distante e magica, quasi irraggiungibile. E che Bob Sinclar, se proprio deve, venga ad allietarci in piazza Fiera. Se proprio deve...

DONNE DI OGGI: FANNO SEMPRE LA SPESA, MANGIANO IN PIEDI E...

Come ogni giorno, ti ritrovi al supermercato a sbrigare gli inevitabili adempimenti volti a saziare gli appetiti pressoché inesauribili degli adolescenti a casa. Crescendo, cominciano pure a fare i difficili: uno punta solo sulle proteine e sul bio, l’altro evita insaccati per i brufoli – quindi non prenderne per gli altri, per carità, che mi vien gola – l’ultimo vivrebbe di pasta e cioccolato, in alternanza continua. Il tutto, comunque, complessivamente, assunto in quantità industriali. Qualche collega in pausa caffè mi consiglia la “spesona” mensile o quantomeno settimanale, per alleggerire lo stress da supermercato. Bella battuta! Impossibile. O forse possibile se avessi una dispensa sotto chiave. Ingenuamente sistemata nel frigo e negli armadietti di cucina sparirebbe in poche ore.
Mi ritrovo quindi alla cassa a sistemare le provviste di giornata sul nastro scorrevole e contemporaneamente a rispondere all’interrogatorio martellante della cassiera:
“Ha la tessera?”
“Servono borse?”
“Sa che di questo prodotto c’era il 3x2?”
“Con due euro in più vuole il soprammobile in omaggio?”
“Fa la raccolta punti per il completo letto?”
Cerco di stare a tempo con le risposte: sì, no, no, no e no. Convinta di aver finito, la ragazza sferra l’ultima: “Vuole la rivista?” E va bene, prendiamo la rivista. La signora dietro di me, che si appresta a subire la stessa sorte, mette già le mani in avanti: “Io non la prendo, è inutile, non riesco mai a sedermi e a leggerla, non ho tempo.” E così, nello spazio di pochi minuti, si apre una discussione/confronto a tre (io, la signora e la cassiera) sul tempo delle donne; ne deriva un quadro davvero poco incoraggiante. Non ci si siede per leggere e spesso non ci si siede nemmeno per mangiare. Si addenta qualcosa al volo tra il microonde e il freezer, si assaggia un attimo sul piano cottura, si prende una forchettata rapida dall’insalatiera prima di portare in tavola. Alla faccia dei pereri dei nutrizionisti, che continuano a dispensare consigli per una digestione ottimale: sedersi tranquillamente, disporre il cibo sul piatto giusto, masticare un mucchio di volte. Eh sì!!! Magari! E chi ha tempo?!
E quelle volte che i ragazzi non ci sono? Ogni tanto succede. Ma chi ha voglia di cucinare? E allora via con lo yogurt. Consumato rigorosamente sul divano.